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"L'adozione è un viaggio lungo una vita. E sapere da dove si viene è fondamentale”

Elisabetta Invernizzi
Elisabetta Invernizzi 

Sulla carta d'identità c'è scritto Corea del Sud. Ma dei primi otto mesi della sua vita, Laura, non sa nulla. Da Seul un giorno di maggio del 1974 è stata messa su un aereo: destinazione Italia. Qui ha trovato una nuova casa e una famiglia pronta ad accoglierla. A Milano è cresciuta, si è laureata in Psicologia e ora lavora nel mondo dell'adozione per aiutare i ragazzi che come lei sono stati abbandonati.

Laura Pensini, 42 anni, è solo una degli oltre 200 mila bambini coreani spediti in adozione in tutto il mondo dal 1953 – quando il dittatore Syngman Rhee aveva deciso di "purificare la razza" e incoraggiare la partenza dei figli nati da donne coreane e soldati americani – a oggi. La guerra di Corea aveva causato oltre due milioni di morti e devastato il Paese. E tra l'eredità di quel conflitto c'erano gli orfani. Bambini – figli della guerra, della povertà e degli abbandoni – a cui trovare una famiglia. E così, l'adozione internazionale da risposta è diventata presto un business. Tanto che, a metà degli anni Ottanta, nel Paese c'erano più di 300 agenzie ad occuparsene, e ogni giorno 24 bambini lasciavano la Corea del Sud. Adesso quei ragazzi cresciuti in America, Francia, Svezia e Italia vogliono fare luce sul proprio passato. E per farlo, si affidano al test del Dna.

Come Laura, che da qualche anno è alla ricerca dei suoi genitori biologici e adesso ha deciso di partecipare alla campagna dell'associazione 325Kamra. Un progetto finanziato da Thomas Park Clement, americano di origine coreana, che ha donato un milione di dollari in kit per il test del Dna autosomico da distribuire ai suoi connazionali adottati in tutto il mondo e alle donne che anni fa hanno abbandonato i loro figli e che potrebbero essere le loro mamme biologiche.

Prima di conoscere suo marito, Kim Cimaschi – anche lui italiano adottivo di origine coreana – Laura non si era mai interessata alle proprie origini. Da quel giorno di maggio del 1974 non era mai più tornata in Corea. Poi, con Kim, la svolta. Nel 2012 il primo viaggio. In quell'anno poi ci è tornata altre due volte. La seconda si è anche sposata con il rito locale. Da allora, per Laura, è iniziato un lungo e tormentato percorso a ritroso alla ricerca delle proprie radici.

"Mi sentivo come una barca in un mare di tempesta", racconta ad HuffPost. "Ma adesso le acque sono un po' più calme". Perché l'adozione, dice, "è un viaggio lungo una vita. E sapere da dove si viene è fondamentale". Per questo Laura oggi si appella alla scienza. "Con i genitori adottivi, il discorso delle mie origini è sempre stato un tabù. Mi hanno cresciuto come se fossi nata da loro e avessero cancellato i primi otto mesi della mia vita e la terra che mi ha visto nascere". Ma ogni bambino adottato, racconta Laura, questa volta in veste di psicologa, "arriva nella nuova famiglia con la sua storia, anche se non la ricorda perché è piccolo". Ma c'è e "minimizzarla, o peggio ancora, negarla, fa male". Perché in questo modo, "il bambino pensa che la sua origine possa avere qualcosa di sbagliato".

Un confronto, quello tra un passato da ricostruire e un presente pieno di domande lasciate in sospeso, che a volte coincide anche con lo scontro tra due diverse culture, che non può essere ignorato. E una ferita ancora aperta per molti uomini e donne adottati che non conoscono nulla delle loro prime settimane di vita. Per questo Laura vuole fare luce sulla sua infanzia. Perché, spiega ad HuffPost, "per chi ha un'origine incerta, conoscere la composizione del proprio Dna aiuta ad aggiungere un tassello nella costruzione della propria identità". E magari a trovare anche qualche parente tra i milioni di profili raccolti durante questa campagna.

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