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Economia

Un secolo dal 1917 della Rivoluzione, dieci anni dalla Grande Crisi

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Un secolo fa il 1917, l'anno della Rivoluzione sovietica, uno di quegli eventi che segnano il rumore del tempo in tutto il mondo, uno degli spartiacque netti, nell'immaginario generale, tra "il prima" e "il dopo", il simbolo di un'epocale "frattura storica", per usare l'efficace linguaggio di Fernand Braudel.

Dieci anni fa l'inizio della "Grande Crisi" finanziaria ed economica, i cui effetti avvertiamo con forza ancora oggi. In mezzo, una stagione tumultuosa di radicali e spesso drammatici cambiamenti. Se scrivere di storia è "dare fisionomia alle date", secondo l'insegnamento di Walter Benjamin, tenere in gran conto le ricorrenze è scelta puntuale e opportuna.

La Storia, è vero, non è affatto, come si dice, magistra vitae. Ma criticamente ricostruita, aiuta comunque a vedere meglio il senso del passato e a farci decifrare più consapevolmente le nostre controverse attualità.

In tempi recenti, tra l'avvio del secolo breve e i giorni contemporanei di crisi e cambiamento, il Novecento trasecola con il crollo del Muro di Berlino e l'implosione dell'impero sovietico nel 1989, il controverso "primato americano" nel momento del trionfo del mercato e delle democrazie liberali contro l'Orso comunista, l'impetuosa globalizzazione, la sempre più rapida diffusione delle tecnologie digitali che cambiano produzioni, prodotti, mercati e consumi.

E, ancora, con il boom internazionale della finanza d'assalto e dei suoi sofisticati strumenti slegati dall'"economia reale". Nel 2007, ecco appunto la Grande Crisi. Sulle cui cause e sui cui effetti "Il Sole24Ore", con la firma di Paolo Bricco, dal 13 gennaio sta scrivendo stimolanti ricostruzioni. Ricorrenze da rimeditare, dunque. Sino all'attualità.

Il secolo breve comincia con la Grande Guerra 1914-1918: lunga, devastante, radicalmente diversa dal passato, per l'irruzione sulla scena bellica di nuove tecnologie militari (motorizzazione, aerei, meccaniche delle armi, chimica, gas, finanza, logistica, etc.) e per le dimensioni di massa dello scontro, le cui conseguenze coinvolgono come non mai ampi strati di popolazione civile.

Dimensioni da ristudiare (c'è una buona bibliografia italiana e internazionale pubblicata nell'ultimo biennio, sino all'emozionante "Come sugli alberi le foglie" di Gianni Biondillo per Guanda sui "futuristi" nelle trincee sanguinose e luride e il crollo dell'illusione marinettiana sulla guerra come "igiene del mondo" e all'essenziale "1917 - L'anno della rivoluzione" di Angelo D'Orsi per Laterza).

E questioni dell'epoca che restano assolutamente contemporanee, come scopre chi riprende in mano "Le conseguenze economiche della pace", il lucidissimo pamphlet scritto da John Maynard Keynes nel 1919 per documentare gli errori del Trattato di Pace di Versailles e denunciare gli effetti negativi dell'umiliazione della Germania e degli egoismi nazionalistici di Gran Bretagna e Francia e della superficiale affermazione d'egemonia degli Usa (ne sarebbe discesa la seconda Guerra Mondiale, con il suo strascico di tragedie).

Un Keynes su cui riflettere, anche oggi, in stagioni di controversi neo-nazionalismi, protezionismi di corto respiro e rozze definizioni di influenze globali politiche, militari, economiche. Proprio sul piano dell'intreccio tra politica ed economia la Grande Crisi offre parecchi temi ancora validi.

Il primo tema riguarda il "via libera" lasciato dalla politica della "Reaganomics" e dei Chicago Boys di Friedman (la teoria dello "Stato leggero" e del "mercatismo", l'ideologia del mercato come valore assoluto e generale e non come strumento di libera competizione ben regolata) e poi dalla clintoniana supponenza dello slogan "It's economy, stupid" all'espansione della finanza e dei disvalori del profitto rapido e rapace ("Greed is good", secondo la battuta di Gordon Gekko-Michael Douglas in "Wall Street").

Ecco il punto: Grande Crisi da debito eccessivo camuffato da "derivati" e "subprime", squilibri economici e sociali intollerabili, diseguaglianze. Le conseguenze sono ancora attuali. Le discussioni di questi giorni al World Economic Forum di Davos ne sono chiara eco.

Bricco, sulle pagine de "Il Sole24Ore", mostra con abbondanza di dati e fatti lo stop della crescita nell'area Ocse tra 2007 e 2009 e poi la differente ripresa negli Usa e nella Ue, con la Germania dinamica e l'Italia squilibrata, anche dall'aumento del divario tra Nord e Sud ("Il mondo ha ripreso a correre ma l'Italia è ancora in affanno").

Ricorda i guasti finanziari ma anche il peso rilevante del ritorno alla manifattura come cardine di sviluppo ed export ("l'orgoglio industriale" italiano). Insiste su lavoro, investimenti, tecnologie, produttività nelle inedite dimensioni della "figital economy2 e di Industry 4.0. Tutto un mondo, insomma, nel turbinio d'una trasformazione dagli esiti incerti.

"They don't make 'em like that any more" scrive "The Economist" nel numero adesso in edicola, aggiungendo che "Manifacturing in the rich world has changed dramatically from the metal-bashing days. So have the jobs that go with it".

Ecco un tema chiave: la relazione tra tecnologie innovative e lavori che si perdono, esigenze di nuove e dinamiche competenze professionali e squilibri sociali, rispetto per le logiche di mercato (competitività, internazionalizzazione) e di profitto per le imprese e questioni d'occupazione, salario e welfare.

Ma anche il conflittuale rapporto tra globalizzazione che avanza (con opportunità e ombre) e rinascita degli spiriti nazionalisti (Trump, Putin, Erdogan, le subculture della Brexit, gli egoismi di parecchi paesi all'interno della stessa Ue).

Torniamo, così, alle contraddizioni del Novecento espresse oggi in forme naturalmente nuove e ancora più dirompenti: tra democrazia liberale e capitalismo nelle sue varie forme, tra innovazione hi-tech e antichi valori (la dignità del lavoro), tra benessere dei ceti sociali più forti e incertezze delle giovani generazioni, tra patrie e mondo. Le riflessioni critiche su tutti gli aspetti del 1917, nella ricorrenza del secolo, possono aiutare a capire un po' meglio anche l'oggi.

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