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7 ragioni per innamorarsi di Roberto Baggio

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1. Perché con lui la bellezza sovverte il codice del mondo.

La grandezza di Roberto Baggio sta in una combinazione, quasi unica nella storia del calcio, tra una tecnica altissima e un'inventiva inaudita; il suo modo di giocare a pallone diventa così, non semplicemente un'esecuzione del gesto atletico finalizzato al goal, ma anzitutto una reinvenzione del gioco stesso attraverso forme, schemi, idee, gestualità, geometrie inconcepibili prima che lui li abbia compiuti. Così, una giocata di Baggio è ciò che confuta il grigiore del mondo con un tocco di genio inaspettato; è l'imprevisto stupendo. Pasolini, che avrebbe adorato Baggio, diceva che il goal è una sovversione del codice, ed è per questo che si ama il calcio. Baggio è allora l'essenza del calcio: perché le sue giocate creano una bellezza il cui stupore sovverte per un attimo la stantia normalità del mondo.

2. Perché ha vinto anche la partita contro se stesso.

Innumerevoli le sfide di Baggio, con le tante maglie che ha indossato: Vincenza, Fiorentina, Juventus, Milan, Bologna, Internazionale, Brescia; molte quelle vinte, moltissime quelle perdute. Se così tanto lo si è amato e tifato, in una nazione campanilistica come l'Italia, a prescindere dalla bandiera della società che vestiva e dai suoi successi, questo strano fenomeno sociologico va forse letto così: Baggio ha giocato anzitutto contro se stesso, senza cedere mai, lottando contro una serie di infortuni micidiali e sfortune di percorso che gli hanno letteralmente tagliato le gambe, più di una volta. Ma la sua storia, una delle più longeve del calcio italico, ci insegna che la partita più importante tutti noi la giochiamo contro noi stessi; e che la passione che abbiamo va seguita per essere sempre all'altezza di noi stessi, dando tutto ciò che possiamo. E questo rende la sua parabola di sportivo fonte d'inesauribile ispirazione in ogni ambito. Per questo si "tifa Baggio"

3. Perché è un anti-vip schivo, con un'aura di melanconia, umiltà, mitezza.

Forse è il calciatore italiano più conosciuto nel mondo, di certo il più amato e celebrato dalla gente. E a questa immagine iconica e leggendaria corrisponde stridentemente un carattere umano che è intimamente connesso con il suo modo di giocare a pallone: cioè quella strana melanconia che fa di Baggio un un uomo mite e riservato, che nel lampo mistico dei suoi occhi chiari conserva ancora la semplicità delle campagne vicentine. Una semplicità unita però a una profonda consapevolezza: tutto è impermanenza, o anicca, secondo il termine sanscrito della tradizione buddhista; dunque nulla è reale, e la prima illusione è il nostro ego: l'Io non esiste, è vana fantasia di attaccamento: si tratta del principio dell'anatta, dell'irrealtà dell'Io. Chi ha intuito questa verità non porterà mai i risvoltini ai pantaloni e non ballerà con le veline, perché sarà immerso nella compassione nei confronti di tutti gli esseri senzienti, e giocherà a calcio cercando di trascendere la sofferenza (dukkha) del cosmo.

4. Perché è un ero wagneriano che ha avuto sempre tutti (i mediocri) contro.

Strano, il destino di Baggio. Uno che ha vinto il pallone d'oro, in grado di risolvere partite ad ogni livello, di fare goal e assist come nessun altro nella sua epoca, è anche uno che però ha quasi sempre dovuto lottare per un posto il squadra, per non scaldare la panchina. Il primo allenatore che gli fu ostile fu Erikson, che lo riteneva immaturo, e lo volle dare in prestito; tra gli altri Capello, Sacchi, Ancellotti, Ulivieri lo esclusero dalla rosa dei titolari o addirittura non lo vollero in squadra. Con Lippi lo scontro fu acerrimo, e Giovanni Trapattoni, che non ne apprezzò mai il gioco alla Juve perché diceva che non difendeva abbastanza, gli rifiutò nel 2002 la convocazione in Nazionale per i Mondiali di Korea (sarebbe stato il suo quarto mondiale), una convocazione che assumeva i contorni di una chiamata a furor di popolo. Come un eroe wagneriano, Baggio ha avuto sempre tutti contro. A fronte di un comportamento professionale sempre impeccabile. Quale allora la sua colpa? Al di là delle vicende, e al di là del fatto che sia stato senza dubbio un giocatore difficile da declinare entro tattiche prestabilite, la sua colpa fu essere Baggio. Cosa che gli altri non sono. Assai sovente, i mediocri non possono perdonare, a chi brilla, la luce. Per loro, diventa un istinto e un dovere offuscarla. Ma tutto ciò non ha fatto che accrescere la leggenda di Roberto Baggio.

5. Perché a Brescia, con Mazzone, ha fatto un calcio metafisico.

L'allenatore che lo ha di più valorizzato e apprezzato, esaltandone le qualità, è stato Carletto Mazzone, in quello splendido crepuscolo che è stata la sua stagione a Brescia; in quel sublime canto del cigno, troviamo forse le perle più belle di Roberto Baggio. Ridimensionata la fase atletica, Baggio a Brescia ha raffinato e portato al parossismo la sua genialità tecnica, reinventando se stesso e il suo modo di giocare. Guardiola, Toni, Pirlo, suoi compagni nella cittadina lombarda, rimasero affascinati dal gioco e dall'umanità di Baggio. A Mazzone va il merito di essere andato a riprendere il più talentuoso giocatore della nazione - che il calcio italiano aveva lasciato senza squadra, ad allenarsi da solo sul campetto di casa sua - per farlo risorgere più splendido che mai, con un gioco talmente intelligente da prescindere quasi dallo stato fisico. Vale, per Roberto Baggio, quanto Foster Wallace ha scritto di Federer: è uno di quei rari atleti in cui le leggi gravitazionali, in determinati istanti, parrebbero sospese. Lo stesso Carlo Mazzone pare citasse Foster Wallace quando, al termine di un esaltante derby contro l'Atalanta, corse verso la curva avversaria dopo che Baggio con una tripletta ribaltò il risultato del match.

6. Perché ha sbagliato quel rigore a Pasadena

L'avesse segnato, probabilmente avremmo perso lo stesso la finale col Brasile, quel giorno. Dagli ottavi, era stato un giocatore dalla bravura irreale; le sue magie avevano dato concretezza alle astrazioni tattiche di Sacchi, portando in finale una Nazionale già pronta con le valige per Roma. In finale c'era arrivato acciaccato, ancora mali fisici, forse non avrebbe nemmeno dovuto in giocare. In campo ha rischiato di risolverla comunque. Poi invece i rigori. E quel suo rigore. Uno dei pochissimi sbagliati, probabilmente il solo che abbia mai calciato sopra la traversa. Quel pallone non si è scaraventato su una porta nel cielo perché Baggio non stava bene. Bensì perché Baggio è l'eroe che prende su di sé la sconfitta. Diventa solo sua la colpa per l'infrangersi del sogno di una nazione. L'eroe si carica inconsciamente sulle spalle, tra il 10 e il codino, la sconfitta; e ci dà così una lezione fondamentale: se tiri un rigore, puoi sbagliarlo. Ma questo non è il dato finale. Se ami una ragazza puoi perderla; se speri in un lavoro puoi rimanere deluso; se ti fidi puoi venire tradito: l'attaccamento implica sempre dolore. Ma questo non è il punto: nella vita come in campo, il risultato in ultima analisi non è il punto. Ciò che conta è aver tentato, aver dato il massimo; aver giocato con gioia e foga; ascoltato ogni segnale dei compagni; risposto di sì con tanto fiato quanto ne abbiamo; sapere che la sconfitta non è un fallimento. È da questi particolari che si giudica un giocatore.

7. Perché mette in salvo i tuoi sogni di bambino

Ha ispirato canzoni, libri, opere teatrali, come nessun altro atleta italiano della sua generazione. Perché ciò che veramente esalta, in Roberto Baggio, è il suo utilizzo della fantasia. Se è vero, come ha scritto Osvaldo Soriano, che il calcio è una fiaba per adulti disincantati - un'epica dei rozzi, potremmo dire -, Baggio incarna proprio questa cifra magica del gioco del pallone. Gli altri fantasisti della storia del calcio (e fra questi forse ve ne sono una decina più forti, e moltissimi più vincenti, rispetto a Roberto Baggio) entrano nel gioco modificando o finalizzando tattiche e strategie con una tecnica superiore; ma Baggio è un 10 fuori dagli schemi in ogni senso perché il suo calcio, quanto mai mentale, non si limita a dare forma al gioco attraverso la fantasia: è la fantasia stessa che diventa il dato preminente. E allora ecco perché i suoi tocchi illuminano il campo: perché ti dà la percezione che fare goal non dipenda dalla forza fisica, dalla fortuna, o dal budget investito da una società; sembra che tutto dipenda da un'invenzione - che l'universo dipenda dalla fantasia. La realtà, dai nostri sogni. Guardi Baggio e pensi che qualcosa di meraviglioso possa accadere. Per citare Dylan Thomas, Baggio ti fa credere che il pallone che nel parco hai tirato in aria da bambino, quando giocare a calcio ti rendeva la creatura più felice dell'universo, non sia ancora caduto a terra.

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