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Politica

I discorsi dei perdenti. Troppo vecchi per piangere, troppo dolore per ridere

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È difficile trovare le parole giuste quando si vince, ma è anche peggio trovarle quando si prendono sonore mazzate. Nel suo discorso dopo la sconfitta del referendum, Matteo Renzi ha dimostrato di saper uscire di scena con signorilità. Dal punto di vista retorico è stato un manuale di stile. Renzi non si è lamentato, non ha accusato, si è preso tutta la colpa e non ha pronunciato la frase deprimente "non siamo stati capiti" o peggio "non siamo stati capaci di comunicare".

Ha detto esattamente il contrario: ce l'ho messa tutta ma non ce l'ho fatta. Le parole "ho perso" e il sorriso amaro che le ha accompagnate gli hanno fatto conquistare il rispetto dell'uditorio: "Io sono diverso, ho perso e lo dico a voce alta, anche se con il nodo in gola. Perché non siamo robot". Anche l'ultimo atto di Matteo Renzi è stato caratterizzato dal topos dell'ottimismo, un elemento ricorrente nei suoi discorsi: "Si può perdere il referendum ma non si può perdere il buonumore". Niente facce lunghe. "Ora et labora et noli contristari".

Gli americani - maestri dell'arte del dire, malgrado la retorica abbia origini nostrane - hanno fatto dei discorsi di sconfitta un vero e proprio genere. Il primo a essere stato costretto ad affrontare un "concession speech" in televisione, un discorso di riconoscimento della vittoria dell'avversario, è stato il povero Adlai Stevenson, sconfitto nel 1952 da Eisenhower alle elezioni presidenziali.

Il suo discorso di sconfitta è considerato il "nonno" del genere. Dopo il classico appello all'unità del Paese, Stevenson cita Lincoln: "Gli chiedevano come si sentiva dopo una elezione persa. Come un bambino dopo aver urtato il dito del piede nel buio. Troppo vecchio per piangere, ma troppo dolore per ridere".

Anche il discorso di John McCain, battuto nel 2008 alle elezioni presidenziali da Barack Obama, è un punto di riferimento del genere. Ci sono tutti i passaggi chiave necessari. McCain si prende la responsabilità della batosta, salvando i suoi sostenitori: "Il fallimento è mio, non vostro". Un punto in comune con il discorso di Renzi.

Poi ringrazia sua moglie Cindy e i suoi figli. Un altro punto in comune con Matteo che ha ringraziato Agnese e i suoi ragazzi. Infine sottolinea che non ha rimpianti, perché si è impegnato nella campagna senza risparmiarsi: "Non impiegherò un momento rimpiangendo quello che sarebbe potuto essere". Anche qui ritroviamo l'ottimismo del nostro premier.

Un tono completamente diverso è, invece, quello di Richard Nixon, costretto a dimettersi nel 1974 a causa dello scandalo Watergate. Non si tratta dunque di un concession speech ma delle drammatiche parole di sconfitta di un discorso di dimissioni. Nixon ci tiene a sottolineare che è costretto a compiere quel gesto. Con occhi di fuoco e con un'aria quasi disgustata per quello che è costretto a fare, dice: "Non sono mai stato uno che molla. Lasciare il mio incarico prima della fine del mandato è qualcosa che mi ripugna, ma come presidente devo mettere davanti a tutto gli interessi del Paese."

Ma se davvero vogliamo imparare a perdere (perché a vincere siamo bravi tutti) dobbiamo ascoltare i discorsi di una delle più grandi incassatrici del nostro secolo: Hillary Clinton. Una carriera costellata da concession speech, più che da victory speech. Nel giugno 2008, Hillary si trova costretta a concludere la campagna per le primarie, combattuta senza esclusione di colpi contro Barack Obama. Una campagna storica: lei, la prima candidata donna; lui, il primo candidato nero. La Clinton deve ammettere di aver perso e deve pronunciare un discorso di endorsement del suo ex avversario Barack.

Non è facile costruire un'allocuzione di sostegno per qualcuno che, fino a qualche giorno prima, ci si era impegnati a demolire. Non è una questione etica. Si sa che la politica è fatta di inimicizie e alleanze temporanee. È una questione di credibilità dell'oratore. A dispetto di quanti pensano che agli oratori navigati venga tutto facile, fino all'ultimo minuto Hillary corregge il discorso con l'aiuto di Bill.

Il 7 giugno al National Building Museum di Washington, il marito, la mamma quasi novantenne e la figlia Chelsea sono al suo fianco quando Hillary fa il suo ingresso nella sala gremita dai sostenitori delusi. Alcuni piangono. Con un sorriso aperto e la voce piena, la Clinton rompe il ghiaccio con questo incipit: "Beh, non è esattamente la festa che mi aspettavo ma sicuramente apprezzo la compagnia".

Come in un incubo, nel novembre scorso, Hillary Clinton si è ritrovata nella stessa situazione, quando ha dovuto pronunciare il suo concession speech per aver perso contro Donald Trump.

Fortuneha condotto una ricerca dalla quale è emerso che, dai tempi di Stevenson, nessun candidato perdente aveva mai detto "I'm sorry". Hillary è stata la prima: "I'm sorry". "So quanto siate delusi. Perché lo sono anch'io".

Queste parole di sconfitta ci ricordano che non sempre si può volare ma, come faceva Buzz Lightyear di Toy Story, si può cadere con stile. Verso l'infinito e oltre.

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