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Cultura

Del teatro in carcere

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C'è una premessa. Ogni racconto che si rispetti ha bisogno di un antefatto. Fine spettacolo. Lei in proscenio, ultime battute della protagonista. Parole crude. Definitive. Di sangue e morte. Dalla sala si alza un brusio, insistente. Un brusio, più che parole vere e proprie. Non si sente il suono.

L' uomo seduto in mezzo agli altri tende l' orecchio e la vista a cogliere l'inatteso. "...sta piangendo.... sta piangendo....", gli pare di riconoscere in un quel mormorio. Ma non è chiaro. Si sporge un po' dalla sua poltrona, nella platea, "....sta piangendo, chi...?"

C'è la messa in preparazione dell'Othello. Le prove stanno subendo una inaspettata frenata. Per i motivi soliti interni, e un po' per colpa di qualche abbandono da parte della compagnia. Qui abbandoni e allontanamenti sono vissuti come veri e propri tradimenti. E il tradimento è una infamia. Che rispetto c'è per gli infami? C'è un reparto apposta, per gli infami...

Il gruppo disperso cerca di ritrovarsi, di rinsaldarsi, di trovare nuovi stimoli anche con l'arrivo di nuovi studenti e allievi. La curiosità è enorme. Volti nuovi. Occhi nuovi a cui sorridere, da guardare e da cui farsi guardare. È l'occasione che si ripropone, rara, per farsi belli. Una camicia più elegante, più pulita, più bianca del solito maglione della tuta, dei camosci. Qualcuno si è appena fatto la barba. Un altro è appena uscito dalla doccia.

Questo periodo di nuova conoscenza scorre lentamente. A riprese. Conoscenza di un altro mondo, di questi giovani studenti, del loro essere lì, e del perché. Dei loro studi. Dell'arte. E dei loro interessi. Perché Othello?

Uno legge velocemente e sgraziato, distratto, quasi come soffocando in bocca le parole che vengono fuori nel suo forte dialetto, poche righe che non capisce. Non capisci che sta parlando di te. Sta parlando anche di te. Sta parlando a tutti noi. Rileggi con attenzione, dice l'uomo. Sostituisci alla parola, negro, la tua origine, la tua condizione, il tuo sapere, il tuo vissuto, la tua condizione attuale e ti rendi conto che sta parlando a te, di te.

Il ragazzo riprende la pagina chiusa troppo in fretta, con difficoltà, ma con maggiore attenzione, ad alta voce riprende a leggere. E legge e scopre qualcosa di lui. E di tutti quanti gli altri anche. Il protagonista di Othello non sarà lui.

È stato già scelto. Anzi si è scelto da solo. Per quelle capacità innate che ognuno di noi si porta appresso. Anche lì. E per una certa sensibilità. E astuzia. Per quella intrinseca drammaticità che si porta dentro, negli occhi, nell'espressione. Come tutti gli altri, certo, ma lui un po' di più.

Non è più tanto giovane, ma non è vecchio. Il tempo davanti a lui, qui/lì, è ancora molto. Troppo. Troppo tempo per calpestare sempre gli stessi passi, dello stesso corridoio. A inventare un futuro che non c'è. Si crea progetti a breve scadenza. Progetti importanti anche. Costruisce paesaggi come gli artigiani della sua città sanno fare da secoli. Tradizioni che si trasmettono d'animo.

E anche a lui. Non so se è quest'arte che lo fa sembrare così minuzioso e attento. O se può destreggiare quest'arte perché minuzioso e attento lo è già. Non ci si accorge ma lui guarda, nota, annota, osserva. Non ha bisogno di mostrarsi capace. Emerge. È onesto e scaltro. Sincero e profondo. È in grado come pochi di andare oltre l'apparire di ognuno, suo e degli altri.

Ha mani lunghe e forti. Ha il viso emaciato. Gli occhi scavati e occhiaie scure e profonde. Il viso è spigoloso. Labbra sottili. Il tono di voce è basso, né veloce né troppo lento. Non ha la sicurezza ostentata di altri. O forse non ha più le certezze di prima. In una sua foto di qualche anno prima, quando era fuori, era più giovane, più in forma, alla moda, sembrava felice, e strafottente. Elegante e sbarbato. Molto diverso dallo stesso uomo emaciato, con un lungo pizzetto che gli sta crescendo sul viso.

Qualcosa è cambiato. Sembra che mangi poco, raramente. Racconta dei suoi conati e degli spasmi e di altri dolori lancinanti che a volte gli impediscono di mangiare con regolarità. L'amore è un bene che non si vende e non si compra, ma si dà. È la battuta fuori copione che dice. Anche se un po' in imbarazzo, inscena fierezza e sicurezza. È la eleganza e il valore del personaggio del testo. Io so il perché del suo essere lì. Lui mi ha raccontato e io ho domandato. È un modo per smettere di fingere.

Quando sarà il momento di andare in scena davanti al pubblico esterno che è venuto a vedere questo gruppo di attori/non-attori, quando vedo la sua tensione e la sua emozione, troppa, sul viso e sulle mani sudate, gli ricorderò di chi era e del suo essere-prima di essere lì.

C'è bisogno di questo per ritrovare il suo intimo essere, la sua dignità, la sua forza, la sua volontà. Ha un talento e se solo la vita a volte mostrasse altre possibilità, forse sarebbe potuta andare diversamente. Chissà.

Ci mette impegno e dedizione anche a tradurre nel suo linguaggio le parole scritte del testo. A tradurre con il suo corpo, con il suo agire, le azioni del personaggio. E il suo dire tradisce la sua passione e la certezza con cui si prende carico degli impegni.

Riprende a lavorare, dentro. Per fortuna. Lavorare è una delle maggiori opportunità di riscatto. Impiega tempo e testa in una attività quotidiana, costante e produttiva. È lavoro, ed è anche fonte di guadagno che è necessario per non pesare sulle condizioni della famiglia.

Il lavoro qui significa avere la possibilità anche di poter fare un dono ai propri figli durante uno dei colloqui. È una sorpresa dove non ci sono sorprese. Belle sorprese, intendo.Nonostante il lavoro lo impegni, non è mai assente. Non è mai impreparato, distratto o assente. O controvoglia.

Qualcun altro arriva spesso controvoglia, pochi per fortuna. Sanno poco di questa nuova esperienza e arrivano con la sensazione di qualcosa di noioso. Arrivano con troppe certezze e con poca voglia di mettersi in gioco, e in discussione.

È una moda andare "lì", a fare teatro, mi aveva detto uno, una volta. Una moda, già. Come se sentire questi cancelli che ti sbattono dietro, chiudendosi, come se questa diffidenza, o il fastidio anche, o la disperazione siano di moda. Una moda. Non vale la pena rispondere. Avevo lasciato cadere la tentazione di rispondere a questa battuta. Non ne vale la pena neanche ora dopo tutta questa esperienza. Dopo tutta questa ricchezza. Di spirito, dico.

È gente di spettacolo. Gente di spettacolo nel senso proprio dell'apparire. Poveri di spirito, anime morte direbbe uno. Ignoranti, che nutrono se stessi del loro stesso narcisismo. Mentre tu tenti di portare un po' del tuo sapere, che è poco, lì.

Moda. La moda di sentire la puzza della cappella piena di escrementi, una volta che aveva piovuto troppo, più del solito. È moda, e mi ritrovo a pensare a questi giovani studenti che sono lì con me che invece di starsene comodamente seduti in un bar o a casa,a parlare di moda, impiegano responsabilmente il loro tempo per l' altro da sé.

Il loro impegno nel tentare di rendere questa parte di mondo invisibile, e fuori dalle mode, un po' più vivibile, un po' più degne le vite di essere vissute, le vite di chi questa realtà la vive. Un po' più umana. La moda non c' entra nulla. È proprio una faccenda culturale, è importante ripeterlo. È una faccenda culturale perché riparte dal modo di intendere se stessi in quanto uomini.

È una questione sull'arte, dunque. Sul concetto di arte che si ha e si dà. E che si mette in netta contrapposizione con chi intende l'arte, come moda, perché ha questo come riferimento culturale. Da una parte la moda e la rappresentazione dell' artistico, dall'altra una idea di arte che ha a che fare con una idea dell'uomo.

Un'altra idea dell'umano. L'arte intesa come moda, come intrattenimento piuttosto che come uno degli aspetti che maggiormente contribuisce a dire qualcosa intorno all'uomo, da parte dell'uomo stesso. "È moda...", al di là dell'essere una semplice e superficiale battuta, è il consolidarsi del nichilismo feticistico di chi ha risposte, senza aver posto mai domande, a se stesso innanzitutto.

C'è in questa altra forma di arte, invece, il tentativo, e la tentazione, di porre domande, a chi le domande non ha mai avuto occasione, coraggio, di porle. Sta parlando anche di te Othello? O anche a te? Queste domande sono poste anche a chi non è protagonista attivo, principale della messa in opera del testo. E che per questo diventa comunque una messa in opera collettiva, corale, coinvolgente.

E imparano anche a essere attenti, a fare attenzione. Le proprie azioni seguono ad altre azioni. Imparano a muoversi a ritmo. Imparano l'importanza dei silenzi e delle battute. Chi è più attento aiuta gli altri in questa costruzione scenica semplice e complessa.

Semplice e complessa come un film Giapponese che inscena un processo a tre imputati. Fermi, seduti, raccontando la loro storia iniziamo con un processo, ai processati. "...io ti accuso", io non posso dirlo. Io non accuserei nessuno. Cambio battuta.

Sembra che scherzi, e invece ha del disagio vero ad accusare anche solo per finta qualcuno dei suoi compagni. Il processo è iniziato. Nessuna magia di Othello ha fatto innamorare la giovane Desdemona. Solo il fascino delle sue vere imprese, e il valore che i suoi occhi esprimono e l'intensità del vissuto del suo raccontare. Egli ha modi rudi di un guerriero. Eppure quando parla il suo sguardo evoca la dolcezza negli occhi di lei.

"...più parlavo e lei più si innamorava. Più raccontavo, e più io mi innamoravo...", e l'emozione si ferma in gola, al protagonista e a chi la dice per la prima volta. Quando si discute di valore, onore, battaglie, volontà, amore, è giusto emozionarsi. Ogni volta.

Come uno che ripete le sue battute per farle proprie. Come se volesse esser lui stesso il personaggio e le sue azioni e il suo valore. È giovane e può solo limitarsi per ora, a ripetere e a suggerire all'altro le battute che in scena, dimentica.

"...se a questo punto del copione ci fosse scritto, che dovrei sguainare la spada, non avrei bisogno del suggeritore...", suggerisce il suggeritore. Othello è la storia di un uomo colpevole dell'amore per la sua giovane moglie. È innocente dell'accusa infamante di averla raggirata. Lei ama il suo essere un libro aperto. Si dà a lui come sua madre ha fatto con il padre. Con rispetto, ma con una ferma volontà.

Questa scena provata e riprovata tra risate imbarazzate e la polvere di sottofondo del sottoscala lascia trapelare l'urgenza del talento e della volontà di chi si mette in gioco in questa opera. Mettersi in gioco... Ma è davvero un gioco soltanto?

C'è un che di ostinato e continuo in questa giovane donna che cerca il suo tono la sua espressione in mezzo a tanti, così distanti e diversi da lei. C'è del talento nel spingerla così oltre se stessa. C'è dell'istinto a imporre la sua flebile, all'inizio, voce, su quella degli altri, abituati a vociare, abituati a urlare, abituati ad altre urla.

Quando la rabbia del protagonista sarà giunta all'apice, con lei prossima a essere uccisa, ha cantato. Voci in questa cappella spoglia. La tensione dei due protagonisti che si impone sulla scena. Lei cade, lacrimando dell'abbandono di lui. Un lungo silenzio accompagna i suoi passi.

Flebile, disperata, intima e drammatica sale la voce di lei e salendo riempie dal basso tutta questa sala. Sale ed è così dirompente da interrompere il brusio di sottofondo, e costringe tutti a restare ad ascoltare. A essere attenti a imparare il rispetto per questa bellezza.

È questione di un attimo, è la magia che ci mette innanzi alla potenza della emozione dell'arte e della poesia.

Finisce il canto e un applauso spontaneo accompagna gli occhi di lei, tornati riservati, timidi per quanto accaduto. L' attesa è sciolta, l' arte ha svelato se stessa, e qualcosa di altro.

È una attrice! È una attrice! Dice quello che qualche mese prima l'aveva vista già in teatro, maliziosamente, come uno che sa cogliere l'essenza. E in effetti... Questo parla gesticolando minuziosamente, come lo si vede fare raramente. Qualche volta in maniera esagerata, agitata, dirompente, altre più latitante... Latitante...

Non è grasso, anzi. Occupa come molti il suo tempo in palestra a modellare il corpo rinchiuso e ristretto, eppure nel camminare ha un'andatura in avanti, come se fosse il suo stomaco gonfio a muoverlo. Ha occhi azzurri, vispi, oppure minacciosi se li si coglie a guardare di traverso, oppure gentili e arroganti, allo stesso tempo. Confidenziali.

Il sorriso tirato, non del tutto, è sincero. Ci si potrebbe fidare di quest'uomo, nonostante il perché stia qui. Nonostante il motivo per cui sia qui. Sa giocare fin troppo bene il personaggio dell'infame. Forse è davvero bravo a calarsi in questi panni, forse sa calarsi in altri panni... Anche quando dice che vuole, vorrebbe cambiare vita. Che vuole essere un altro esempio per i suoi figli. Che vorrebbe per loro altre possibilità rispetto a quelle che lui stesso ha avuto.

Si potrebbe dire che sia sincero. E magari lo è davvero. È troppo bravo a fingere, però, e questo, in questo caso è un pericolo. Ha talento vero. Il suo agire in scena è catalizzare attenzione su di sé, soltanto. Gli altri escono, scompaiono. C'è lui e le sue mani che si rincorrono nello spazio, con naturalezza. Lui e questo sorriso rabbioso, della malasorte. Lui e il suo sguardo di sbieco che ti minaccia e ti tranquillizza.

Lui che attore non è, costringe la musica ad andare dietro al suo ritmo. È il toro nell'arena. O il torero. Ruba la scena. Si diverte e fa divertire.Come un attore orientale lascia il personaggio imperfetto, perfezionarsi nell'atto stesso. Sperimenta la sua lingua musicale senza far attenzione a farsi capire.

Coinvolge e apre sensi inesplorati. Il suo agire in scena è proprio di chi ha l'intuizione essenziale e concreta che il teatro non è mera rappresentazione di un accadimento, di una storia, di un soggetto, ma è piuttosto l'accadimento stesso, l'evento stesso.

Ed è in questa intuizione che il teatro è l'arte che più assomiglia alla vita, rispetto alle altre espressioni artistiche. Questo personaggio è la (im-)perfetta messa in scena dell'arte teatrale, che suscita emozioni e domande, in chi agisce e in chi osserva. Ed è l'aspetto determinante che questa esperienza deve suscitare: emozionare e porre domande. Pensieri. Agitare.

Un'agitazione che nella sua essenza non è conciliante. Scuote. Muove. Cambia. Rivolta. Agita davvero non per la rappresentazione di un personaggio, di un carattere, ma per la freddezza, la cattiveria vissuta, il suo viscido sarcasmo, la febbrile ironia, la disperante allusione, la maligna benevolenza, la sua allusiva trivialità, che sono parte della vita. Che sono vita. Anche.

Il corpo ha dato vita a un personaggio/non-personaggio che proprio in questa manchevolezza tronca è risultato antico e reale. Drammatico, tragico, funesto. Inquietante. È spaesate questo intendere l'arte teatrale. Spaesante perché non si capisce dove finisca il personaggio e dove cominci l' uomo. Dove finisca l'uomo e cominci il personaggio.

Questi gesti minimi, quotidiani esagerati fino alla maniera, sono potenti. Di una potenza di chi conosce dolore e difficoltà. Di una potenza che è forza e decisione. Se il teatro restituisce in termini di maggiore consapevolezza del proprio io, qui accade. A partire dal corpo, e dal camminare stesso. Deciso o spavaldo. Del gesto ancora semplice, essenziale e per questo più drammatico. Del guardare dritto, dentro. Lì il teatro ha questa importanza. Lì è un sottoscala umido. Impolverato. A cui si accede dopo aver attraversato molti cancelli.

O il teatro dentro. Ma troppo insolito e destabilizzante. Troppo aperto, meglio la squallida quotidianità di tutti i giorni. Meglio viverla questa tristezza, questa miseria scritta sui muri e sui vestiti. Meglio? Questa è la sala dove ci troviamo a bere caffè e dove passiamo questo tempo assieme. Socialità, si chiama così.

È la loro finestra sul mondo. Quel mondo di fuori che continua a scorrere, che si dimentica di loro, e che in casi rari entra per ricordare che ancora c'è. C'è una vita con lo scorrere dei giorni diversi, con la possibilità di incontri diversi, con altro, con gli altri. Si chiama libertà. Si impara a chiamarla libertà, questa possibilità.

Chi si assume la responsabilità di questa parola lì, lo fa senza troppa consapevolezza, altrimenti tremerebbero le gambe e le vene nei polsi. Questa socialità è uno spazio di libertà, importante. Il tempo e lo spazio sospesi diventano spazio e tempo di libertà. In questo senso questa esperienza unica è una esperienza che chi la vive, difficilmente può lasciarsi alle spalle.

La si porta addosso, assieme all'umidità, al rumore dell'acqua dello scarico, alla puzza, all'abitare questo luogo. E al camminare per corridoi interrotti da cancelli. Quel camminare che rende tutti uguali. Qui ogni identità è cancellata. Anche i vestiti omologano. Chi lavora porta i camosci di ordinanza o i camicioni della cucina, bianco/sporco.

Eppure il lavoro è un aspetto fondamentale per chi abita questo luogo. Impiega tempo e attenzione. Tempo che scorre senza accadimenti altrimenti, è destinato a qualcosa di concreto, pratico. Dà l'occasione di mettersi a disposizione di una comunità di simili.

Simili e ultimi. Si può far finta di non vedere, voltare lo sguardo da un'altra parte, ma questa è la realtà. Il carcere è la punizione per gli ultimi che hanno trasgredito alle regole civili e economiche.Stare lì in mezzo a questi loro senza un ruolo senza una divisa, di assistente o medico o infermiere, insegna questo. Basta mettersi in ascolto.

Questo è il dramma del carcere e della contemporaneità. Persone che dopo un periodo più o meno lungo di detenzione poi, una volta fuori, sono costretti, dalla necessità anche a commettere reati. Costretti dalla fame. Dal sonno. Dalla realtà. Con il rischio di non poter mangiare letteralmente. O di non avere un luogo dove dormire, tanto da scegliere, e capita, di tornare dentro. A costo della libertà. Ma che libertà è non poter usufruire di questa libertà?

Allora va ripensata. Si dovrebbe pensare seriamente e quotidianamente a cosa significhi questa parola: libertà. E al modo di esperire e vivere la propria (libera) vita, quando ci si scontra con l' impossibilità di trovare lavoro, o mangiare... Mangiare tutti i giorni.

Ecco i protagonisti di quest'opera sono loro. Loro e la stigmatizzazione del loro essere (stati) criminali, che si portano dietro come un tatuaggio sulla pelle. Loro e il loro essere esclusi prima dopo e durante, da quelle libertà che si diceva.

Le libertà dell'apertura mentale, delle mille e una possibilità, dello scrivere, del fantasticare, dell' evasione, dell' immaginare, del viaggiare. Questo teatro è e vuole essere il dono di questa condivisione in questa condizione. Condivisione di bellezza, di questa bellezza, in questa condizione di miseria. È un altro racconto, è il racconto di un' altra vita. Di attese.

È questo il laboratorio di idee e di questo incontro. È questo il sapere in comune. Che si incontra nonostante le differenze. Non si giudica. Loro non si sentono giudicati. Da questa vicinanza che è empatia innanzitutto, accade l' ascolto. Accade anche quando sembra che non stia accadendo. È l'ascolto di quanto sia importante la cultura. E di quanto possa essere rivoluzionaria la filosofia, la cultura. È una rivolta, nel senso di volgersi di nuovo verso se stessi, nel tentativo di raggiungere altri obiettivi, o percorrere altri percorsi, con altre destinazioni.

La scelta e la decisione sono ciò che rendono un uomo, uomo. Liberamente. Questo mettere in scena se stessi tramite il teatro, tramite se stessi, è l' incontro con la libertà. Definitivamente. La libertà è il tema di fondo per chi ha a che fare con la detenzione. Nonostante la complessità del tema, si vive, si odora. Si respira questa assenza di libertà.

E allora domandare e porre domande può essere un primo passo verso una nuova destinazione, verso una nuova direzione, almeno per avere un cambio di prospettiva. Almeno per quel volgersi altrove che è ri-volgersi. I testi sono solo occasioni per cambiare sguardi e opinioni. Per lasciare generare idee. Per pensare riflettere e agire diversamente.

La cultura, la fotografia, la filosofia, il teatro, la musica hanno a che fare con l' uomo in questo senso più intimo, nella sua intima essenza perché mettono in questione. Con diffidenza ci si avvicina a queste nuove esperienze, tanto più dentro. La vita dentro nel suo semplice nulla (è complicato in realtà vivere nel nulla che accade, nulla che si muove, nulla da vedere, nulla da eccepire, nulla da incontrare o immaginare...) può portare ad un lento e costante lasciarsi andare che è un rotolare inarrestabile. La rivolta è contro questo lasciarsi andare innanzitutto.

È la rivolta di chi si è escluso anche per incapacità, o per caso o per destino, o per ragioni altre, dal sapere, dallo studio dall'incontro con l'altro. È la rivolta di chi non ha avuto accesso a certe forme di sapere, a certe posizioni sociali, a certi privilegi, che si chiamano soltanto libertà.

Forse mi ha lasciato perché io non parlo come i cortigiani, o non indosso abiti borghesi o non so leggere e scrivere o perché sono nero... Basta questa battuta declinata nell'Othello per cogliere tutta la importanza di una lettura di un testo tra chi non ha cultura sapere o modi borghesi. Per questi attori-non-attori è l'occasione per capire la condizione di ognuno, anche la loro, vista da un punto di vista differente, quello del protagonista, dell' eroe, del valoroso, di un uomo, come tutti.

I valori di un eroe, di un uomo, vanno ben oltre i modi cortesi di una vita borghese. E inoltre, il racconto del moro è anche il racconto di un femminicidio, l'attualità di questo dramma, dell' omicidio della donna infedele.

I valori uomo/donna sono altri. Eppure spiegare il valore e la preparazione e l'educazione di una studentessa è per loro, e per tutti, anche lo stimolo per un ulteriore cambio di atteggiamento. Valori e disvalori, ancora.

Othello o della verità è lasciar venir fuori tutto questo, lasciar venir fuori la verità del loro essere uomini oltre la volgarità dell'infamia di uno dei protagonisti. Infamia che lì ha tutt'altro (dis)valore, anche. Si inscena, ma si finge poco, mostrando anzi il valore di questi uomini poco straordinari. Finzione-non-finzione che è durata lo spazio di un anno.

I cambiamenti maggiori non si vedono a occhio nudo. E alcuni si manifestano solo con il tempo. Qualcuno si è perso per strada intanto. Gli studenti hanno svelato a loro stessi una parte di mondo coperto. Hanno visto oltre il velo, hanno visto un'altra verità, fino a quel momento soltanto raccontata da un altro, da altri.

Ciò che resta, sono solo questi uomini.

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