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Il custode che veglia sul mito italiano della Bugatti: "Io, ultimo innamorato dell’auto perfetta"

Ezio Pavesi 
Ezio Pavesi organizza gratis visite guidate all'ex stabilimento di Campogalliano: "Spero che riapra dopo vent'anni". Il marchio ora rilanciato dal Gruppo Volkswagen, con fabbrica a Molsheim, in Francia, dove fu fondata nel 1909 da Ettore Bugatti
 
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MODENA - Un giorno falcia l’erba del prato, un altro lava i vetri degli uffici, oppure scopa il pavimento dell’officina. Tutte le sere fa il giro dello stabilimento. Controlla per bene prima di tornare a casa. Ma prima chiude il cancello d’ingresso, su cui ha appeso un cartello con il numero del suo cellulare: telefonate e mettetevi d’accordo, appena esce dall’ufficio (ora fa l’impiegato a Carpi, arriva in un quarto d’ora) Ezio Pavesi, 54 anni, è sempre a disposizione per una visita gratuita dell’azienda. Che ha chiuso 21 anni fa. Però il vecchio custode — Ezio, appunto — è ancora lì. E si prende cura di quel che resta di un pezzo di storia moderna d’Italia, un capolavoro d’ingegno e spirito d’avventura, meccanica e design del futuro.

Un sogno forse impossibile. La Bugatti di Campogalliano, la Fabbrica Blu (dal 1998 con un investimento di 1000 miliardi di lire dell'epoca il marchio Bugatti è stato rilanciato dal colosso Volkswagen e ha aperto una fabbrica a Molsheim, in Francia, dove fu fondata nel 1909 da Ettore Bugatti). «Lo faccio per riconoscenza », racconta. «Perché uno di questi giorni magari potrebbe bussare un imprenditore. Potrebbe capire. E noi tutti, ricominciare a sognare. A vivere come allora ».

La Fabbrica Blu la riconosci percorrendo l’autostrada del Brennero direzione sud, a meno di un chilometro dall’inserimento con la A1, quella del Sole. Vedi il capannone di un colore che è solo il suo, quasi brilla. Sulla parete si distingue ancora il segno del marchio, strappato via dopo il fallimento del settembre ’95. Accanto, ecco la torre a specchi che ospitava i laboratori, la mensa, gli uffici. Tutto intorno c’è un parco ed un nastro d’asfalto che serviva pure da circuito di prova per i prototipi.

Settantamila metri quadri di ricordi. Qui sono state progettate e realizzate le mitiche Bugatti 110, berline sportive che non avevano nulla da invidiare alle Lamborghini o Ferrari. Opere d’arte in alluminio e titanio, in carbonio e magnesio: sculture rombanti — e carissime, perché un esemplare costava fino a un miliardo di lire — che sposavano concetti meccanici e di linee estremi, avveniristici. Il genio italiano. È la storia di Romano Artioli, imprenditore bolzanino che nel 1989 recupera il marchio del milanese Ettore Bugatti, emigrato in Francia alla fine dell’Ottocento per costruire le “automobili più belle del mondo”. La Bugatti, che dal ’63 aveva cessato la produzione, con Artioli rinasce in Italia. A Campogalliano. «La gente di Modena non voleva trasferirsi», ha sempre spiegato lui. «E senza la gente di Modena, non c’era niente da fare». Vuole i migliori, pretende che lavorino in condizioni ideali. Cento miliardi di investimento per una fabbrica mai vista né concepita, così. Roba marziana, dicevano allora, disegnata in mezzo ad un’oasi verde dall’architetto Giampaolo Benedini.

La grande officina in calcestruzzo ricoperta all’esterno con le lamiere “blu Bugatti”, poi la torre degli uffici: un edificio a tre piani in cerchi concentrici e cavi d’acciaio che riproduceva le ruote di una vettura. Imprevedibili e ancora modernissimi giochi di luce. Le porte che «si aprivano come nei film di James Bond», una mensa che «pareva un ristorante da Gambero Rosso» e ci mangiavano tutti insieme: operai, ingegneri, padroni e clienti. Anche Michael Schumacher, che si comprò una Bugatti gialla. «Lo stabilimento doveva gratificare l’uomo che vi lavorava. Infatti alla sera li dovevo mandare via, perché volevano restare tutti», ricorda Artioli. I dipendenti confermano. Erano 150, ma dopo 5 anni e una improvvisa, feroce guerra giudiziaria — «I fornitori vennero messi alle strette dai nostri concorrenti: avete presente a chi potevamo dare fastidio?» — una mattina trovarono i sigilli ai cancelli. Un “buco” da 200 miliardi di lire, quando in realtà arrivavano commesse da tutto il mondo. Il delitto perfetto, raccontano. Il fallimento, il marchio venduto alla Volkswagen e finito in un cassetto. La fine di un sogno, che Davide Maffei ha raccontato in maniera esemplare in un docu-film: “La Fabbrica Blu”.

Oggi restano lo scheletro dell’officina, il parco intorno, la torre circolare. Ed Ezio Pavesi. «Il mio è un debito di riconoscenza», racconta. «Metto ordine, faccio visitare la struttura. Mi sento come un guerriero che non vuole arrendersi ». Pensavano di fare di questi resti un centro commerciale, però chi si accolla gli oneri di urbanizzazione? «Era una avventura straordinaria, merita rispetto ». Facevano la fila per venire a Campogalliano. A comprare una Bugatti. A lavorare. Oppure solo a contemplare quel monumento dell’ingegno, della bellezza. Nella Motor Valley emiliana ci sono altre vittime illustri della crudeltà del mercato: come la De Tomaso, dove venivano prodotte le “Pantera”, ridotta ad un fatiscente ricovero per senza tetto. Pavesi scuote la testa.

Anche ieri ha accompagnato due inglesi che lavorano per la McLaren a dare un’occhiata al Tempio. «Dicevano che il tempo sembrava essersi fermato. Io spero che sia così. Ma che presto le lancette tornino a correre. Magari arriva un imprenditore. E si ricomincia a sognare».