Economia

Dai condoni dimenticati un tesoretto da 20 miliardi

La somma è stimata dagli esperti sulla base di un calcolo che comprende le rate non pagate dopo quella iniziale e una serie di oneri accessori. il nodo rimane quello degli abusi edilizi che anche dopo le sanatorie hanno continuato a deturpare il territorio
 

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Perché prima d’ora nessun governo abbia mai voluto andare in fondo a questa faccenda dei condoni edilizi è un bel mistero. Un mistero che la sciatteria congenita con la quale si amministra questo Paese non è sufficiente a spiegare. Il fatto è che da sempre il condono rappresenta un nervo scoperto della nostra politica, destra o sinistra poco importa. E meno quel nervo si stuzzica, meglio è: anche se stuzzicandolo bene potrebbe arrivare nelle casse dello stato una valanga di soldi. Non può dunque che apparire dunque sorprendente come a trentadue anni dalla sanatoria varata da Bettino Craxi nel 1985, e ben ventidue governi dopo, ci sia un esecutivo che pensa a chiudere quella pagina indecente e le altre due, altrettanto indecenti, seguite alla prima durante le diverse epoche berlusconiane.

La pratica è in mano al responsabile delle Infrastrutture Graziano Delrio, che l’ha affidata al viceministro Riccardo Nencini. L’idea è quella di introdurre nella legge di stabilità per il 2018, che dovrà essere approvata entro la fine dell’anno, una norma che prevede la costituzione di «unità di valutazione» territoriali con il compito di affiancare gli enti locali nello smaltimento delle domande di condono edilizio ancora inevase. Si tratterebbe insomma di istituire localmente uffici speciali direttamente dipendenti dallo stato centrale incaricati di esaminare le pratiche e stabilire se gli abusi dichiarati da chi invoca la sanatoria sono regolarizzabili oppure no.

L’impresa è immane. Le tre sanatorie del 1985, del 1994 e del 2003 hanno fatto riversare negli uffici dei circa 8 mila Comuni italiani ben 15 milioni 431.707 domande di condono: come se un cittadino italiano su quattro, neonati compresi, avesse commesso un’illegalità edilizia di qualche genere, dal terrazzino trasformato in veranda alla palazzina sul terreno demaniale. E a distanza di tredici anni dall’ultima di queste tre sanatorie giacciono ancora placidamente nei cassetti degli uffici ben 5 milioni di richieste inevase, di cui 3 milioni relative al condono del 1985.

Una gigantesca montagna di carte sotto cui, secondo il centro studi Sogeea, è sepolto un autentico tesoro: almeno 20 miliardi di euro ancora non incassati dall’Erario. Somma stimata dagli esperti sulla base di un calcolo che comprende oneri concessori, oblazioni e diritti di istruttoria e segreteria oltre a sanzioni per danno ambientale. Tenendo anche presente che molti si sono limitati a pagare solo la prima rata, in attesa dei conti definitivi. Mai pervenuti.

C’è da dire che la responsabilità, in molti casi, è principalmente riconducibile a lentezze burocratiche. Le dimensioni di alcuni arretrati si possono giustificare soltanto così. A Roma, per esempio, sono arrivate negli anni 599.793 domande di condono, un terzo delle quali rimane tuttora da smaltire. Con la particolarità che metà dell’inevaso, vale a dire 100 mila pratiche, riguarda la sanatoria di 32 anni fa. La capitale è la città che ha il record delle domande e delle pratiche incagliate, tanto che l’amministrazione sta pensando a cavarsi d’impaccio con l’autocertificazione. Un obbrobrio che la dice lunga sulla superficialità dell’approccio alla questione. Ma c’è dell’altro oltre alle inefficienze amministrative, che purtroppo dalle nostre parti sono scontate. Quante di quelle domande sarebbero da rigettare? Quante opere abusive dovrebbero essere buttate giù? E quale sarebbe il prezzo politico per le amministrazioni?

Le cronache sono piene di storie allucinanti come quella del sindaco di Licata Angelo Cambiano, sfiduciato dalla maggioranza perché aveva deciso di abbattere le costruzioni fuorilegge. Una vicenda che dice tutto, in un Paese nel quale i condoni a ripetizione non hanno fatto altro che incentivare l’abusivismo: se è vero che ancora oggi, dicono le stime, spuntano nel territorio italiano costruzioni abusive a un ritmo di 22.600 l’anno, 60 al giorno. I dati di una ricerca del Cresme fanno letteralmente venire i brividi.

Nei cinque anni dal 2012 al 2017 sarebbero sorte in Italia 113.400 case abusive, numero pari al 16,7 per cento di tutte le nuove costruzioni, contro il 10,1 del periodo 2002-2011. Il peso dell’abusivismo, che sembrava essersi ridotto, è tornato così ai livelli del decennio precedente. E questo grazie anche al fatto che in tutti questi anni la cultura dell’illegalità non ha trovato il minimo contrasto nell’azione degli apparati pubblici. Dove, semmai, si possono riscontrare comportamenti che vanno in direzione esattamente opposta. Sempre più spesso le sanatorie mascherate fanno capolino qua e là nelle leggi regionali, dalla Campania alla Sardegna, dalla Sicilia all’Abruzzo, dalla Calabria alla Lombardia, dal Friuli- Venezia Giulia alla Puglia, dal Veneto alla Basilicata. Perfino con la beffarda motivazione dell’obiettivo di «limitare il consumo del suolo».

In un Paese straziato dalle catsatrofi naturali causate dall’incuria umana, con l’assetto idrogeologico devastato dalla cementificazione si è ben pensato, in nove di queste Regioni, di consentire la trasformazione delle cantine e dei seminterrati in abitazioni. Ecco allora che spostare il peso della responsabilità sullo stato centrale potrebbe risolvere la parte più rognosa del problema. Cavando d’impaccio, e non raramente pure dalle tentazioni, gli amministratori locali. La bozza delle disposizioni che dovrebbero essere introdotte nella manovra assegna agli uffici speciali «di valutazione» gli stessi poteri dei Comuni e delle Regioni ai fini dei provvedimenti «di sanatoria o di demolizione». Significa che dovrebbero essere proprio queste «unità di valutazione» a decidere se l’abuso oggetto di domanda inevasa può essere regolarizzato in base alle tre leggi sul condono edilizio, o rientra al contrario nella casistica delle opere insanabili per ragioni statiche e strutturali, quando non paesaggistiche. Circostanza per nulla rara. In questa seconda evenienza la proposta che si sta facendo strada prevede l’individuazione degli immobili non sanabili da acquisire al patrimonio pubblico per essere riutilizzati al servizio dell’emergenza abitativa, e di quelli invece da abbattere senza pietà perché privi dei requisiti minimi per essere lasciati in piedi.

A questo proposito è utile ricordare, anche a chi fra gli amministratori locali meno coraggiosi oppone alle demolizioni l’argomento dell’impossibilità materiale di procedere per mancanza di mezzi o di risorse, che già le leggi in vigore consentirebbe in ultima mistanza di fare ricorso all’esercito. Nel riconfermare che agli occupanti degli edifici illegali non può essere concessa la residenza e va negato anche l’allaccio alla luce, all’acqua e al gas, il provvedimento stabilisce poi l’inasprimento delle pene per chi tira su una casa senza permesso, portandole da due a tre anni di carcere. La ragione è semplice: fino ai due anni è applicabile la condizionale, quindi non si va in prigione. Oltre quel limite temporale, invece, il rischio di finire in galera diventa decisamente più concreto. Ma potrà essere un deterrente efficace? Per prima cosa è da vedere se passerà, e se insieme a questo passerà tutto il resto. In un Parlamento pronto a votare una legge che di fatto avrebbe ridotto le demolizioni degli abusi edilizi a una rara eventualità, non è difficile immaginare gli ostacoli dei quali potrà essere disseminato l’iter di un simile provvedimento. Anche perché è chiaro che senza mettere un punto fermo e definitivo su quella maleodorante stagione dei condoni edilizi qualunque discorso serio sulla lotta all’abusivismo potrebbe essere compromesso. Perché la prima cosa da fare se si vuole pensare di restituire alla piena legalità l’uso del nostro territorio è conoscere esattamente ciò che è in regola e ciò che non lo è.

E qui viene fuori un’altra curiosa forma di cecità che affligge quasi tutte le amministrazioni locali. Perché da tempo immemore, ormai, la tecnologia offre tutti gli strumenti possibili per tenere sotto controllo la piaga dell’abusivismo come pure per verificare la veridicità di certe domande di condono. Grazie alle rilevazioni aeree si è potuto scoprire che a Roma e nelle campagna circostanti sono state presentate richieste di sanatoria per migliaia di immobili inesistenti al momento dell’approvazione della legge partorita nel 2003. E con la semplice sovrapposizione delle mappe catastali di una determinata zona alle foto aeree è addirittura elementare, come dimostrano le immagini in queste pagine che si riferiscono a una piccola porzione del litorale nella provincia di Reggio Calabria, scoprire le costruzioni (edificate in questo caso anche in una fascia protetta) sconosciute al catasto e quindi anche al fisco. Immobili sui quali i proprietari si presume che non paghino imposte, né tasse relative ai servizi pubblici.

C’è chi argomenta che il confronto fra le carte e le immagini reali va comunque preso con le molle. La ragione è che il catasto non è ovunque aggiornato come dovrebbe essere: ci sono anzi zone del Paese nelle quali le lacune sono decisamente ragguardevoli. Al tempo stesso si sono verificati pure casi di immobili completamente abusivi che per ragioni imperscrutabili (ma si sa, in Italia la comunicazione fra gli uffici pubblici si presenta piuttosto problematica) hanno ottenuto l’iscrizione al catasto, nelle cui mappe figurano normalmente accanto agli edifici in regola. Ma al netto di queste osservazioni la sovrapposizione dei fogli catastali con le fotografie fornisce troppo spesso scenari tanto impressionanti da non poter essere solo il frutto di eventuali errori e omissioni. In ogni caso il risultato renderebbe doverosa una verifica scrupolosa delle differenze. Ed è certo che si farebbero scoperte assai interessanti. L’operazione sarebbe semplicissima, ed è sicuro che contribuirebbe anche a rimpinguare certe esangui casse municipali. Ha solo il difetto di non essere molto popolare. E non è nemmeno troppo difficile capire perché.