Economia

Consulta, nessuna spesa legale per chi fa causa al datore di lavoro

La Corte costituzionale ha stabilito l'illegittimità dell'articolo 92 del codice di procedura civile che impone il pagamento delle spese legali a chi ricorre al giudice in caso di licenziamento illegittimo e perde la causa. Massimo Cerniglia: "Un'ottima decisione perché non si può penalizzare chi è vittima di un'ingiustizia. C'è tra l'altro una netta disparità economica e di status tra i due soggetti in causa"

1 minuti di lettura
ROMA - Essere licenziati ingiustamente di questi tempi, senza più articolo 18, non è un'ipotesi da scartare. L'unica soluzione, se si è convinti di essere nel giusto è far causa al datore di lavoro. Ma oltre a rimanere senza stipendio, chi è ormai fuori dell'azienda qualche tentennamento lo ha, anche perché una causa implica pur sempre delle spese. E, se si perde, oltre alla parcella dell'avvocato della parte avversa, c'è da conteggiare anche le spese processuali, che sono poche ma che comunque ci sono. Una penalizzazione che la Corte costituzionale ha cancellato, dichiarando illegittimo l'articolo 92 del Codice di proceduta civile, riformulato nel 2014.

E dunque da oggi il lavoratore che si rivolge al giudice per un contenzioso di lavoro non è più obbligato a pagare le spese processuali nel caso la decisione del giudice fosse a lui sfavorevole. Un modo per allargare i diritti dei lavoratori, che da tempo si stanno restringendo e che sicuramente verrà vista favorevolmente sia dai sindacati che dalle schiere di avvocati chiamati a difendere chi intenta la causa, sia che sia stato licenziato, sia che sia stato discriminato. La Suprema Corte afferma così un principio essenziale: il lavoratore deve avere la possibilità di promuovere una causa senza poter conoscere elementi di fatto, rilevanti e decisivi, che sono nella disponibilità del solo datore di lavoro. Tutti elementi che spesso rischiano di determinare la sentenza finale. 
 
Un diritto in più per i lavoratori, senza stravolgere le regole dei contenziosi sul lavoro. Uomini e donne che si sentiranno più protetti nel chiedere a un giudice che gli vengano riconosciuti i propri diritti che, a loro avviso sono stati calpestati o non rispettati. Anzi con questa decisione la Corte suprema ha ristabilito un principio di equità tra due soggetti, uno più forte, l'azienda, l'altro più debole il lavoratore, che negli ultimi tre anni aveva comportato un crollo del contenzioso di lavoro. E non perché i diritti dei lavoratori fossero meno caplestati. Tutt'altro. "Mi sembra un'ottima decisione quella presa dalla Corte - commenta Massimo Cerniglia, professore e avvocato del lavoro - soprattutto in anni come questi, anni in cui le cause sono diminuite proprio a causa del ridimensionamento subito dai diritti dei lavoratori. E' stato ristabilito un principio sacrosanto, perché è evidente la disparità di status e di potere economico tra il lavoratore e il datore di lavoro. Se si è stati licenziati o ancora peggio se si è vittima di mobbing, demansionamento o discriminazione è giusto che il lavorore non venga penalizzato in caso voglia ricorrere al giudice".