Politica

Governo, carabinieri e Servizi segreti: il grande intrigo dell'affare Consip

(ansa)
Nessun complotto, tante partite incrociate all'ombra dell'esecutivo. Dall'intercettazione tra Renzi e il generale Adinolfi al ruolo di Ultimo: ecco le trame di potere dietro le indagini giudiziarie 
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ROMA - Che storia racconta la sequenza di manipolazioni, infedeltà, segreti violati nell'inchiesta Consip? Davvero si è trattato di un complotto? Sette diverse fonti qualificate interne agli apparati di sicurezza dello Stato e di Governo che hanno accettato di rispondere nelle scorse settimane alle domande di Repubblica purché venisse garantito loro l'anonimato, nonché l'accesso a comunicazioni riservate, consentono oggi di dare una prima risposta.

L'affaire Consip non è stata una macchinazione. Piuttosto, è stata, come nello spirito del tempo, la gallina dalle uova d'oro intorno alla quale, per dieci mesi, hanno danzato Politica, Intelligence, Arma dei Carabinieri, magistratura, giocando ciascuno una propria partita. Governati da un proprio interesse. Quasi sempre di corto respiro: carriere, ricadute politiche, visibilità.

I VELENI DI CONSIP: LA SECONDA PUNTATA

Tutti consapevoli della straordinaria opportunità che gli era stata data. Giocare di sponda con il destino politico dell'uomo che nella Primavera del 2016, anno del "giudizio universale" referendario, aveva in pugno il Paese, o almeno così riteneva: il presidente del Consiglio, Matteo Renzi.

La storia ha un incipit. Cruciale per comprendere tutto quello che accadrà di lì ai successivi 18 mesi. L'estate del 2015. In luglio, il Fatto Quotidiano pubblica le intercettazioni telefoniche delle conversazioni tra l'allora generale della Guardia di Finanza, Michele Adinolfi (ufficiale cresciuto all'ombra del ventennio berlusconiano e poi riconvertito al renzismo nell'ultimo tratto della sua carriera in Toscana), e il presidente del Consiglio Matteo Renzi.

I colloqui si riferiscono all'anno precedente, alle settimane in cui Renzi si prepara a sostituire a Palazzo Chigi Enrico Letta. Non è un bel leggere. Per toni e contenuti. Renzi, infatti, è furioso. Perché nulla sa di quella intercettazione. E perché ha dovuto scoprirlo leggendo un giornale. Chiede conto di quanto è accaduto. E lo fa con il nuovo comandante generale dell'Arma dei Carabinieri, Tullio Del Sette, già capo di gabinetto del ministro della Difesa, Roberta Pinotti.

Le intercettazioni, infatti, spuntano da un'indagine disposta dal pm napoletano John Henry Woodcock e condotta dal Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri, di cui è vicecomandante l'unica superstite leggenda dell'Arma, il colonnello Sergio De Caprio, "Ultimo", l'ufficiale che ha arrestato nel 1993 il Capo dei capi di Cosa nostra, Totò Riina. Cosa c'entrano infatti quelle conversazioni intercettate con un'indagine che ha a oggetto la presunta corruzione di un sindaco di provincia per una storia di metanizzazione e illuminazione pubblica dell'isola di Ischia?

 
È ormai noto che quell'inchiesta, che con grande rumore punta in quel momento alle cooperative rosse (l'appalto è stato vinto dall'emiliana Cpl Concordia), lambisce Massimo D'Alema, e dunque la componente ex Ds del Partito Democratico, una volta trasferita a Modena per competenza, non andrà da nessuna parte. Almeno per quanto riguarda il coinvolgimento della politica. Meno noto, ma assai più interessante ai fini di questa storia, il modo con cui quelle intercettazioni del presidente del Consiglio sono finite su un giornale.
 
Si accerterà, infatti, che per un curiosissimo errore materiale, quattro marescialli del Noe hanno depositato il dossier che contiene quelle intercettazioni (e che il pm Woodcock aveva chiesto di omissare, trasmettendolo per competenza alla procura di Modena) in un procedimento parallelo di criminalità organizzata cui è stato dato accesso agli avvocati.
 
I quattro marescialli saranno prosciolti dall'accusa di violazione del segreto. Ma il conto per quella "fuga di notizie per errore" lo pagherà il colonnello Sergio De Caprio, che del Noe è il vicecomandante e dell'indagine Cpl Concordia ha coordinato ogni mossa. Il Comandante generale dell'Arma Del Sette e il suo allora sottocapo di Stato Maggiore, Gaetano Maruccia (diventerà Capo di stato maggiore nel luglio dell'anno successivo, il 2016), della storia di Cpl Concordia nulla sanno. La scoprono leggendo sul Fatto le intercettazioni tra il premier e il generale Adinolfi.

È l'occasione per mettere mano all'anomalia che tutti conoscono, di cui tutti parlano da anni e che nessuno si è azzardato per convenienza ad affrontare. Né la magistratura, né l'Arma, né la stampa. Per smontare o comunque esercitare una qualche forma di controllo sulla cinghia di trasmissione che vede un pm della Direzione distrettuale antimafia di Napoli (Woodcock) occuparsi di reati della pubblica amministrazione utilizzando come polizia giudiziaria gli uomini di Ultimo che dovrebbero
occuparsi di reati ambientali.

Inchieste di formidabile impatto mediatico, di altrettanto formidabile effetto politico istantaneo ed esito processuale mai coincidente con le premesse, per competenze territoriali e risultati dibattimentali. È successo con Finmeccanica. È successo con lo Ior. È successo con il tesoretto della Lega. È successo con la
loggia P4.
 
Del Sette rianima dunque un piano di riordino dei reparti speciali dell'Arma (il Noe è uno di questi) che il suo predecessore, Leonardo Gallitelli, ha sepolto in un cassetto. E che sottrae il controllo delle indagini di polizia giudiziaria al vice comandante del Noe (Ultimo) per consegnarle al comandante che Del Sette sceglie tra gli ufficiali di sua fiducia, il generale Sergio Pascali.
 
Il colonnello De Caprio è fritto. Dopo lustri è di nuovo un guerriero senza spada. Ed è orfana la creatura che ha costruito a sua immagine e somiglianza, il Noe. Un reparto custode, nelle sue intenzioni, di un'ortodossia che ha origine nel generale Carlo Alberto dalla Chiesa e nel Ros di Mario Mori e di un metodo che immagina un reparto di eccellenza muoversi sul sottile e scivolosissimo crinale che divide un corpo di polizia da un servizio segreto. Reagisce dunque nell'unico modo che conosce. Ribellandosi. Minaccia di lasciare l'Arma. Rifiuta un primo tentativo di appeasement che lo vedrebbe alla guida di qualche importante comando provinciale. Piovono interrogazioni parlamentari, viene pubblicato qualche informato articolo. È una grana la cui soluzione Del Sette delega al suo allora sottocapo di Stato maggiore, Maruccia.

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De Caprio è convinto che la sua destituzione sia, né più e né meno, che la vendetta della Politica su quei carabinieri e sul pm che l'hanno messa da anni in scacco. Con la complice arrendevolezza di un nuovo comandante generale. Ma Di Caprio si fida di Maruccia. A tal punto da ammetterlo, unico tra i papaveri di viale Romania, alle celebrazioni in memoria del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che, ogni anno il 3 settembre, celebra nella Onlus Mystica, casa famiglia per ragazzi che ha fondato. Maruccia prova a ricondurlo a più miti consigli. Gli raccomanda prudenza. Lo prega di tenersi lontano dalle luci della ribalta mediatica. In cambio, gli chiede cosa voglia per chiudere quella storia con reciproca soddisfazione. È un tira e molla che va avanti qualche mese. Finché De Caprio non concorda il prezzo per un divorzio consensuale: il suo trasferimento ai Servizi segreti.

 
La cosa appare a Del Sette la quadratura del cerchio. Può cancellare l'anomalia del Noe riconducendolo nella fisiologia del controllo della catena gerarchica, senza umiliarne il simbolo. Di più. Può farlo promettendo a De Caprio non solo che si spenderà per fargli ottenere quel nuovo impiego. Ma che è disposto a fare in modo che lo seguano anche i suoi "orfani" del Noe.
 
Il comandante generale dell'Arma, tuttavia, deve convincere il Governo. Incontra, tra la fine del 2015 e i primi mesi del 2016, l'allora sottosegretario con delega all'Intelligence (ora ministro dell'Interno) Marco Minniti. De Caprio ai Servizi risolve un problema a tutti - argomenta Del Sette - consente di non disperdere le sue straordinarie capacità investigative ma di imbracarle in una struttura che non sia tentata da fughe in avanti. Consente di "ripulire" il Noe da quel vincolo eccentrico di fratellanza, "ribellismo", mistica Apache (i nickname del gruppo sono Parsifal, Ombra, Arciere, Aspide, Veleno) consegnato all'epica da libri e serie televisive sulla stagione della caccia a Totò Riina, che rende quella struttura ingestibile. Minniti dà il suo nulla osta. Ma la collocazione di De Caprio è meno semplice di quello che appare.
 
Perché si fa presto a dire Servizi. Quali Servizi? Non certo il Dis, il Dipartimento per le Informazioni e la Sicurezza, organo di coordinamento dell'intelligence, dove Ultimo andrebbe a morire come impiegato o peggio analista. Ma neppure Aisi, il Servizio segreto interno, perché c'è un problema. Nessuno lo sa e nessuno lo saprà mai fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori, ma la procura di Napoli ha considerato in passato l'arresto di De Caprio accusandolo di concussione.

Un imprenditore, ex ad di Selex (gruppo Finmeccanica) ha sostenuto infatti di essere stato costretto a garantire a Ultimo alcune richieste di utilità per ragioni private, per assicurarsi il nulla osta del Noe necessario al suo business. De Caprio non sarà mai arrestato e il gip di Napoli si dichiara incompetente e trasferisce l'incarto a Roma. Dove, dopo un interrogatorio con il procuratore Giuseppe Pignatone e l'allora pm (oggi aggiunto) Paolo Ielo, l'inchiesta viene archiviata per inconsistenza dell'accusa. Dunque, per De Caprio non resta che l'Aise, la nostra Agenzia di spionaggio, prevalentemente rivolta all'estero.

 
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Il direttore dell'Aise, Alberto Manenti, coglie in De Caprio un'opportunità. Dal giorno in cui ha messo piede nella stanza di direttore dell'Aise a Forte Braschi, quartier generale dell'Agenzia, luogo tra i più protetti e impermeabili del Paese, è, infatti, assediato dai veleni della stagione del Sismi di Niccolò Pollari. E dal suo epigono, Marco Mancini. Ex carabiniere, benvoluto nei circoli di certa sinistra, è stato potentissimo capo divisione all'acme delle fortune pollariane, travolto con infamia dall'extraordinary rendition di Abu Omar e dalle vicende della centrale di spionaggio parallelo cresciuta all'ombra della Telecom di Tronchetti Provera. Marco Mancini è un sopravvissuto. Ha attraversato le tempeste giudiziarie protetto dal segreto di Stato, ma ne è uscito menomato nelle sue ambiziosissime aspettative di carriera. E' stato parcheggiato per un po' a Vienna. Poi è rientrato a Roma dove è stato messo dietro a una scrivania al Dis. Anche se non ha un incarico da niente. Perché controlla la contabilità, coperta da segreto.

 
Dunque, le spese delle agenzie operative. Mancini e i suoi (perché ne ha ancora qualcuno in Aise) sono per Manenti una minaccia in sé. Anche perché - Dio solo sa se a torto o a ragione - l'uomo sarebbe ancora depositario di inconfessabili segreti che riguardano la stagione dei pagamenti dei riscatti per gli italiani sequestrati in Iraq durante il conflitto e persino della morte di Nicola Calipari. Insomma, Manenti ha bisogno di stringere i bulloni dell'Aise e l'"orfano" arrabbiato Sergio De Caprio sembra un dono del cielo.
 
Non fosse altro per come si presenta il primo giorno a Forte Braschi. Lo fanno accomodare in un'anticamera e quindi, prima di portarlo a colloquio con il direttore, lo invitano a passare attraverso il metal detector. Ultimo è la prima cosa che farà notare. "Mi sarei potuto far saltare in aria mentre aspettavo". Dunque, è a bordo. Viene nominato capo della Divisione sicurezza interna. È un reparto che ha come compito la sorveglianza degli asset del Servizio. Dalle banche dati, alle infrastrutture, dalla fedeltà degli operativi, alle operazioni sotto copertura, al rapporto con gli informatori. E, non ultimo, la congruità nella rendicontazione delle spese di gestione.

Parliamo del denaro riconosciuto alle fonti confidenziali ma anche delle singolari spese di rappresentanza (decine di migliaia di euro) dei centri esteri per acqua minerale e succhi
di frutta.
 
Il direttore dell'Aise, Alberto Manenti, ha insomma un nuovo pretoriano. Presto altri lo raggiungeranno. Dal Noe. Ricomponendo la "Squadra". Perché questo è negli accordi. Ultimo scrive la sua lettera di commiato agli uomini del Noe. Con il senno di poi, più che un addio appare il manifesto di quello che li aspetta e che lui ha in mente.
 
"Ho il dovere di ringraziarvi per come avete lottato contro una criminalità complessa, contro le lobby e i poteri forti che la sostengono, senza mai abbassare la testa, senza mai abbassare lo sguardo di fronte a loro e senza mai nulla chiedere per voi stessi. Da Ultimo, vi saluto nella certezza che senza mai abbassare la testa, senza mai abbassare lo sguardo e senza mai chiedere nulla per voi stessi, continuerete la lotta contro quella stessa criminalità, le lobby e i poteri forti che le sostengono e contro quei servi sciocchi che, abusando delle attribuzioni che gli sono state conferite, prevaricano e calpestano le persone che avrebbero il dovere di aiutare e sostenere. Onore a tutti i Carabinieri del Comando per la Tutela dell'Ambiente".
 
Siamo tra la primavera e l'estate del 2016. Nessuno immagina quale gioco di specchi stia per cominciare. De Caprio lascia il Noe con un'eredità: il "la" all'inchiesta sugli appalti Consip, la centrale unica degli acquisti di Stato. La prosecuzione naturale del lavoro cominciato con Cpl Concordia, un'altra puntata dell'inchiesta sul potere secondo il metodo Woodcock.
 
De Caprio non è più nell'Arma. Ma nell'Arma pesca. De Caprio non è più il vice comandante del Noe ma nel Noe si prepara a scegliere nei successivi dieci mesi 34 uomini che vuole lo seguano in Aise. Tra loro c'è anche un ambiziosissimo capitano napoletano. Gianpaolo Scafarto. (1. continua)
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