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ANNIVERSARI

Johnny Cash, 50 anni fa il suo live 'fuorilegge': "Gli uni accanto agli altri: io e i ribelli"

Il 13 gennaio 1968 la star del country, l'irriverente, l'uomo in lotta tra Bene e Male, varca le porte del più famoso Penitenziario della California. Suonerà per duemila carcerati seduti a terra e controllati a vista da guardie armate. Ne uscirà la pietra miliare 'Live at Folsom Prison', oggi celebrata con un'edizione speciale al Record Store Day

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Si tratta di un concerto, ma le luci al neon resteranno accese, bianche e fastidiose, dalla prima all’ultima canzone. È un concerto, ma guardie armate stazionano a ogni uscio e pattugliano la sala. Dal palco proviene una quantità inaudita di energia ma i duemila spettatori non possono muoversi, devono restare fermi ai loro tavolini di plastica bianca. Seduti. Perché non sono fan qualunque: sono ospiti non desiderati di quei cinque edifici a 40 chilometri da Sacramento, California del Nord. È il 13 gennaio 1968, quella è la prigione di Folsom, gli spettatori sono detenuti per ogni tipo di crimine. E sul palco l’uomo in nero di 37 anni con chitarra acustica e faccia emaciata sembra uno di loro. “Hello, I’m Johnny Cash”.

La copertina di 'Live at Folsom Prison' 

Quel concerto è diventato uno degli album live più celebri e di successo della storia della musica rock, tant'è che Cash tornò nelle mura di un carcere, quello di San Quentin, un anno dopo. Pubblicato 50 anni fa, viene ristampato in vinile - prove comprese - solo per il Record Store Day 2018. E inizia proprio così: “Hello, I’m Johnny Cash”. Della serie: calmi e buoni, il controllo lo prendo io, questo adesso è il mio spazio. E poi via proprio con Folsom Prison Blues (“Ho sparato a un uomo a Reno solo per vederlo morire”) una canzone che Cash aveva scritto 13 anni prima, in quel 1955 in cui condivideva con Re Elvis un contratto con la Sun Records e i primi passi del rock and roll. Tredici anni in cui Cash era andato e venuto dall’inferno una quantità indefinite di volte: l’alcol, le anfetamine, settimane intere perso nei bar vicini al deserto, le notti in gabbia, un matrimonio spezzato alle spalle.

Cash davanti al Penitenziario di Folsom, nella Contea di Sacramento, California (ap)
 
E in quei giorni del gennaio 1968, Johnny Cash viveva la sua rinascita. L’ultima infernale spirale che lo aveva avvolto era iniziata nel giugno del 1965, quando brucia il suo trattore e duecento ettari di terreno nella Los Padres National Forest: sarà condannato a risarcire 85mila dollari. Il 2 ottobre dello stesso anno era stato arrestato a El Paso con 474 pasticche di Equanil e 668 di Dexedrina nascoste in una chitarra. Nel 1966 la frequentazione con Dylan non gli aveva fatto bene sotto il versante del consumo di droghe: diventa impossibile da gestire, salta concerti importanti come quello all’Olympia di Parigi. Inizia a essere allontanato dall’industria discografica. A ottobre del 1967 è a un passo dal fondo: tenta il suicidio nella Nickjack Cave in Tennesse. “Ero stanco. Dovevo farla finita, allontanarmi da me stesso”.
 
Lì Cash percepisce la possibilità di una svolta. “Una voce mi disse: ‘Ho ancora dei progetti per te’. Uscii dalla caverna. E due settimane dopo durante una funzione religiosa in una chiesa battista di Henderson Ville percepii la Grazia. Il pastore parlò dell’episodio biblico del pozzo di Sifar. Da allora ho capito che sbagliavo a cercare solo in me stesso il senso della mia vita. Dovevo affidarmi a Dio”. È questo intreccio tra peccato e salvezza, tra dissoluzione e speranza, tra Bene e Male che Johnny Cash porta sul palco della prigione di Folsom. Un uomo vestito di nero in bilico su una linea di confine, costantemente aperto alla possibilità di perdere tutto. Un outsider che imbraccia la chitarra tra duemila altri sconfitti, tra chi ha vissuto ai margini e ha una possibilità di recupero.

Johnny Cash, "At San Quentin", il concerto per i carcerati

 
La forza magnetica di Live at Folsom Prison è tutta qui: un dialogo tra simili. “Mi trovavo nel mio ambiente naturale ed era una delle prime volte che provavo a stare sul palco senza anfetamine. Eravamo gli uni accanto agli altri: io e i prigionieri. Ribelli, fuorilegge”. Tutta la scaletta del concerto sembra mettere in musica una fenomenologia delle bassezze e della depravazione morale di cui è capace l’animo umano. Quasi tutte le canzoni in Folsom Prison parlano di crimini, di condizioni di libertà privata. E di solitudine, disperazione, separazione. E il popolo di Folsom non attende la fine dello spettacolo per applaudire: le urla di approvazione entrano nelle canzoni, ne diventano parte, in un botta e risposta tra outsider che non sarà mai più ripetuto nei futuri 50 anni di rock.
 
Perché mai come tra le mani di Johnny Cash il rock diventa modalità principe per comprendere i conflitti della società contemporanea. E che Live at Folsom Prison sia uscito nei negozi nel maggio del 1968 è solo un incrocio fortunato e simbolico. Da quel disco in poi la voce di Cash viene riconosciuta come la voce degli ultimi, degli esclusi, e di chi si ribella all’esclusione: diventa il cantore dei margini estremi dell’anima, assume su di se il compito di narrare come la salvezza sia sempre a portata di mano e come si possa sempre perderla in un attimo. Questo il filo che lega Live at Folsom Prison con gli ultimi dischi di Cash, la serie American Recordings che è un monumento dell’arte del XX secolo. Un uomo in nero sospeso tra bene e male. Immobile con una chitarra acustica, un ghigno beffardo e la sua voce a testimoniare questa lotta. “Hello, I’m Johnny Cash”.