Il Venerdì

Alle radici della follia Duterte, il nuovo dio delle Filippine

 
Un padre reazionario e una madre paladina della libertà. I giustizieri antidroga e la battaglia contro la Chiesa. Viaggio a Davao, la città che il presidente delle Filippine ha governato per 30 anni
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DAVAO. L’aereo tra Manila e Davao sorvola tutte le tre grandi regioni dell’arcipelago filippino. Nella stiva, con mille cautele, trasporta la copia della Madonna di Fatima che verrà utilizzata per le processioni del centenario della prima apparizione. Nonostante la grande folla –  uomini eccitati come bambini all’idea di accoglierla e donne con il velo di pizzo in testa – il caos che tra poco troveremo nella capitale di Mindanao, una delle isole dell’arcipelago, sarà comunque più composto di quello che ci siamo lasciati alle spalle nella capitale, dove si è appena celebrata l’annuale via crucis del Nazareno nero: un milione e mezzo di devoti pigiati l’uno contro l’altro per toccare la statua in legno di Gesù.

In un Paese in cui 80 dei 100 milioni di cittadini sono cattolici, la vivacità del culto della croce come forma di rispetto verso la Chiesa madre di Roma è evidente ovunque. Ma da un anno a questa parte, sui taxi e sulle insegne dei mercati, sui manifesti e sulle facciate dei palazzi, lasciamo stare in tv e sui giornali che un anno fa nemmeno lo conoscevano («Incredibile, ci siamo accorti di lui solo un mese prima, quando i sondaggi lo davano ormai vincente» mi dice Marites Vitug, regina dei giornalisti investigativi delle Filippine), si moltiplica invece un’altra presenza. È quella del volto indio di Rodrigo Roa Duterte, 71 anni, che nel maggio scorso, dopo esser stato per quasi 30 anni sindaco o vicesindaco proprio qui a Davao, è stato eletto a furor di popolo presidente delle Filippine, il primo a essere originario del Sud. 

Inutile ricordare la sua fama di “giustiziere” che fa uccidere a pagamento, senza mandarli a processo, tossicomani e spacciatori (7.600 in 8 mesi). Du30 – dal gioco di parole Du-thirty – è ormai così popolare che basta mimare il suo celebre pugno teso, diretto verso il muso dell’avversario, per far pensare immediatamente a lui. «Molti sono convinti» assicura Eliseo Mercado, un sacerdote che fu amico della madre del presidente, «che sia stato il Creatore stesso a sceglierlo: un redentore con le palle, e non un “eletto” delle famiglie storiche che hanno sempre girato intorno al potere, uno dei Roxas o degli Aquino, un Arroyo oppure uno dei Marcos, come l’ex dittatore». Eppure Duterte non è affatto, come invece si presenta, «uno del popolo». Erede di antiche stirpi, ha avuto un padre reazionario, Vicente, influente governatore pro Marcos di vari distretti e – cominciamo con le contraddizioni – una madre, Soledad, che contribuì attivamente a far cadere proprio il regime per il quale lavorava suo marito.

È sulla sua tomba, e non su quella del padre, che Du30 va regolarmente a pregare e a chiedere la benedizione. La cattolica Donna Soledad a Davao era una leader del Venerdì Giallo, un movimento di opposizione alla dittatura, ed era anche amica di Cory Aquino, la donna che nel 1986 venne eletta presidente dopo la rivoluzione che destituì Marcos. Soledad, che chiese a Cory di sostenere suo figlio, era già morta quando Rodrigo prese a emulare proprio quel dittatore, del quale ha perfino autorizzato la sepoltura nel Cimitero degli eroi di Manila. Resta il dubbio se sapesse che il figlio per il quale stravedeva poteva contare in realtà sul sostegno segreto di membri della famiglia Marcos (una segretaria personale della vedova del dittatore, Imelda, per lui era come una zia). Il tutto negli anni in cui Rodrigo lavorava a Davao prima come avvocato e poi come magistrato, ma nutrendo ambizioni più alte. 


Ramon Casiple, un ex prigioniero politico, ci spiega che a indebolire i candidati presidenti designati dall’ex leader Benigno Aquino III – presidente dal 2010 al 2016,  figlio di Cory e rivale politico di Duterte – «è stato il fatto che non riuscivano neppure a immaginarsi una guerra politica contro Triadi cinesi, cartelli messicani, Yakuza giapponese, ribelli comunisti e, al Sud, le bande di rapitori islamici di Abu Sayyaf. E a poco servivano i segnali economici positivi e le leggi progressiste di Aquino III se poi a Manila c’era un sindaco che era il protettore del numero uno tra i signori della droga. Quanto invece a Duterte, con le sue clamorose denunce contro vip un tempo intoccabili, ha convinto la gente che la sua campagna antidroga puntasse davvero ai boss». In realtà, tra le vittime dei suoi squadroni della morte, l’unico di una certa rilevanza è un capo della zona di Visayas ovest, quella in cui vivono i grandi padrini: Melvin Odicta, ammazzato assieme alla moglie. 

Erano proprio di Visayas gli antenati di mamma Soledad, guerrieri Waray dell’isola di Leyte e tra i primi animisti convertiti al cristianesimo da Magellano. I Waray sono ancora separati dalle etnie di lingua cebuana da una piccola catena di monti che non ha impedito nei secoli gli innesti tra antichi ceppi indigeni e stranieri come quelli impressi nel volto di Du30. Dai Waray e dagli islamici di Maranao, Duterte ha ereditato il coraggio e la sfrontatezza, ma dai cinesi – uno dei nonni era originario di Xiamen – ha preso di certo arguzia e pragmatismo. Facile capire dunque perché il gene cattolico materno sia solo uno dei tanti a combattersi nell’anima di un uomo che, nonostante tutto, dice di credere in Dio. «Posso parlarci di persona senza preti di mezzo» ha detto «e so che non ha tempo di occuparsi delle cose di quaggiù. A quelle ci penso io». 

Durante il nostro viaggio alle radici del dutertismo, ci mettiamo anche sulle tracce del Pastore Apollo Quiboloy. Il suo Kingdom of Jesus Christ è una lussuosa cittadella recintata. Quiboloy, mentore di Du30 quando era sindaco a Davao, è uno che sostiene di essere «l’ultimo figlio designato personalmente da Dio». Il suo quartier generale è un mega-bunker con scuole, chiese e uffici in cui ha sede anche il network di tv, radio e social media che amplifica il mito del suo pellegrinaggio tra un monte in Corea e due vette di Mindanao, dove mangiò solo banane per purificarsi dal peccato originale e infine ricevere dall’Alto il riconoscimento tanto agognato. Oggi dirige una congregazione che ha 4 milioni di adepti nelle Filippine e 2 nel resto del mondo.

Molti politici locali e nazionali fanno a gara da anni per farsi vedere e sentire sulla sua tv. È qui che Duterte ha affinato la sua capacità comunicativa, con scherzi e battute triviali miste a discorsi seri sulla sua missione. Missione poi sostenuta dal «figlio ufficiale di Dio» con bonifici bancari ad ogni compleanno, oltre che con una casa nel verde di Calinan, vicina al regno di Quiboloy in terra. Anche se oggi sembra averne preso le distanze, Du30 non disdegnava neppure l’elicottero e l’aereo privato di questo televangelista, che oltre alle stimmate della ricchezza dice di aver ottenuto dal Padre celeste il potere di resuscitare i morti e il segreto dell’essenza dell’aria, rivelatogli «la mattina del 25 dicembre 2004», a metà del secondo mandato da sindaco del suo amico e protetto.


Già a quel tempo a Duterte non interessava resuscitare nessuno, né credeva nell’efficacia del quinto comandamento predicato da sua madre e da Mosè: non uccidere. Per anni, fuori dal’isola di Mindanao, poco trapelò sulla sorte di migliaia di vittime, colpevoli o innocenti, giustiziate senza processo dalle squadre della morte antidroga cui la sua amministrazione aveva dato licenza di uccidere. 
Da allora la gente di Davao ha imparato a temere anche la propria ombra. Oggi i minorenni rispettano il coprifuoco delle 22, i fumatori si nascondono per tirare qualche boccata di sigaretta, i tassisti non superano i limiti dei 30 chilometri all’ora in città e fanno la ricevuta. Tutto sembra apparentemente perfetto.

La gente esce di sera a mangiare spiedini e gelati, assiste a messe e gare di biliardo o di galli, passeggia sul corso principale senza temere di incappare, come un tempo, in un borseggio, in un rapimento degli islamisti di Abu Sayyaf, oppure in uno scontro a fuoco tra il New People’s Army e le “squadre anticomuniste” che gli davano la caccia. 
Nel corso degli anni Du30 è riuscito anche a portare al suo fianco anche dei guerriglieri rossi, che ha salvato dalla galera, come l’ex prete Leoncio Evasco. Come si spiega? Il sistema filippino non si basa sui partiti, ma su persone carismatiche che scelgono amici-complici per operare sul fragile confine tra lecito e illecito. Dicono che ad aiutare Duterte a portare a casa 24 miliardi di dollari nel primo viaggio da presidente in Cina sia stato ad esempio un senatore sospettato di far parte delle Triadi. In cambio, gli avrebbe fatto promettere di sganciare le Filippine dalla sfera di influenza americana.

A questo livello del grande gioco globale, ben poco può fare la pur potente Conferenza dei 99 vescovi filippini. Ma dopo anni di imbarazzi per il peso di Duterte tra i loro fedeli, le paure di sue nuove rivelazioni sui preti pedofili e sul vero destino degli oboli raccolti a messa, i porporati locali hanno usato per la prima volta pubblicamente la stessa frase di un giornalista di una radio di Davao, Jun Pala, ucciso nel lontano 2003 subito dopo averla detta: «Poniamo fine al regno di terrore».

Dopo i continui attacchi di Duterte alla Chiesa cattolica («Siete pieni di merda» ha detto rivolgendosi ai vescovi il 24 gennaio), all’inizio di febbraio la Conferenza ha chiesto a tutte le parrocchie di leggere ogni domenica, al posto del sermone, una lettera che comincia così: «Noi, i vostri vescovi, siamo molto preoccupati dalle molte morti e uccisioni nella campagna contro le droghe. In molti posti in cui vivono i poveri regna il terrore. Ma ancora peggiore è l’indifferenza dei tanti che considerano quelle morti e quelle uccisioni come normali, o addirittura come qualcosa che va fatto».  

Nella grande cattedrale di Davao il messaggio letto dal pulpito da Fernando Capalla, arcivescovo in pensione, non provoca all’apparenza alcun segno di assenso o dissenso. Il giudizio sul presidente, che molti tra i fedeli in chiesa hanno votato, sta in un luogo invisibile della coscienza, dove si combattono la fede nel Cristo del Libro e in quello della Spada. All’uscita dalla funzione chiedo ai fedeli se credano nella possibilità di redenzione delle anime perse, come assicurava il severo e inedito sermone scritto dai vescovi di Manila. Molti rispondono che solo Dio ha potere di vita e di morte. «Ma se Duterte esiste» dice la casalinga July Alonzo «è perché il Signore vuole liberarci dal crimine e dal terrorismo, come liberò Sodoma dai degenerati».

Altri fedeli mi dicono che Du30 non ha alcun diritto di parlare male degli abusi compiuti dalla Chiesa, visto quelli che ha inflitto alla prima moglie, Elizabeth Zimmerman, sangue tedesco, madre dell’attuale sindaca di Davao, Sara, e del vicesindaco Paolo. Nella sentenza di annullamento di quel matrimonio per «manifesta incapacità a gestire la famiglia», si legge che l’allora sindaco Rodrigo Duterte non solo portava a casa le sue amanti e le palpava in pubblico, ma soffriva di una forma «incurabile e irreversibile» di «disordine da personalità narcisistica», altamente «impulsivo» con «aspetti aggressivi» e «insensibilità al dolore altrui». 


Ora, dopo otto mesi e migliaia di morti dall’inizio del suo mandato, la mattanza antidroga indiscriminata è stata temporaneamente sospesa. Il presidente ha scoperto che gli stessi giustizieri da lui scelti per la sua campagna erano non solo dei corrotti, ma privi – addirittura ben più di lui – di ogni scrupolo e umanità. L’ultimo episodio riguarda alcuni membri dei corpi speciali della polizia che, con la scusa della missione loro affidata, avevano sequestrato e strangolato un uomo d’affari sudcoreano chiedendone poi, dopo averlo ucciso, il riscatto. Quando Duterte ha capito che le squadre antidroga erano ormai diventate parte di un racket più vasto, le ha smantellate sostituendole con un altro corpo militarizzato rimasto ai margini delle forze dell’ordine da quando aiutò Marcos nell’attuazione delle leggi speciali. Perché la morale dutertiana è che non ci sono angeli a suonare la lira quando Satana è in azione. «Volete credere ai preti? Non votate per me» disse in campagna elettorale. «Con me venga solo chi vuole andare all’inferno». 

(Ha collaborato Ellie Aben)

(24 febbraio 2017)