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Cultura

Sudeste, il vento di Haroldo Conti

"Nei giorni chiari, guardando a sud, come quinte teatrali perennemente oppresse da una nuvola ferrigna, si possono scorgere i profili bianchi e grigi degli edifici più alti di Buenos Aires".

Haroldo Conti è stato uno scrittore argentino, uno dei molti, uno che come altri ha pagato con la vita il prezzo alla dittatura di Videla; venne sequestrato il 5 maggio del 1976, il suo nome figura negli elenchi dei desaparecido, in seguito, molti anni più avanti Videla ammise il suo omicidio. Con ogni probabilità il corpo di Conti fu gettato in mare. Eppure Conti è forse l'unico ad aver pagato due volte. Ha pagato ancora in vita perché non aver in fondo mai scritto della dittatura, e ha pagato dopo – in patria e all'estero – perché i suoi romanzi non avendo detto di quegli anni non meritavano troppa considerazione, o traduzioni, ma il valore di un'opera letteraria non può essere nascosto per sempre; arriva a noi Sudeste scritto da Conti nel 1962, grazie a Exorma edizioni e alla bellissima traduzione (e passione) di Marino Magliani. Il 1962 fu un anno di pubblicazioni di altri straordinari scrittori come Sábato o Cortázar, ma di loro abbiamo potuto leggere molto, di Conti - eccetto il romanzo Mascaró, pubblicato da Bompiani nel 1983 (ora non più in commercio) - quasi nulla.

"Il vento muoveva la superficie del fiume e, sopra al fiume, quell'ondeggiante mare verde in mezzo al quale lui si dava da fare. Ne sentiva il sibilo che si attorcigliava tutt'intorno come un serpente. E poi il palpitare di una immensa solitudine. Dovunque andasse, si spostava portando con sé quel mondo".

Sudeste è il vento che spira sul Paranà, ma è anche la legge principale, è la regola scritta sopra l'acqua alla quale tutti quelli che si muovono, o non si muovono, umani oppure no, devono assoggettarsi. Il fiume, il vento, la natura, i pesci, gli insetti stanno fermi eppure mutano di continuo, ma cosa accade agli uomini che in quel paesaggio lontano dalle città vivono? Accade anche a loro di cambiare, di aggiungere alla fronte una nuova ruga, di invecchiare, di pescare ogni volta in maniera diversa, di non voler pescare, di dominare la corrente e di lasciarsi portare. Capiterà a costoro di parlare molto poco o di non voler parlare affatto; di non cercare compagnia ma di trovarla, di non avere una rotta ma comunque di seguirne una, una per volta, una a caso. Uno di questi uomini è il protagonista di Haroldo Conti, si chiama il Boga e la sua principale attività consiste nel fare nulla.

"Quando capirono che era arrivato il momento, la vecchia si avvicinò al letto e carezzò i capelli del vecchio. E in quel gesto c'era una sollecitudine e una tenerezza indicibile. Allora il vecchio si rizzò nel letto e guardò tutti con una strana lucidità. Aveva un'aria serena, vittoriosa e tremendamente dignitosa. Afferrò una mano della moglie e disse: – Vecchia mia! Fu tutto quel che disse".

Il Boga ha un forte legame con il Vecchio, il Viejo, con cui lavora lungo il fiume. Le frasi qui sopra descrivono gli ultimi istanti di vita del Viejo, che qualche tempo prima ha capito che la morte è prossima, e forse lo ha deciso, di certo asseconda quell'ultimo momento e ci si prepara. Il Boga avvertirà quel distacco, dirà poco ma deciderà di partire, che poi è un modo di restare sul fiume, di riprenderselo facendone parte, non segue il fiume ci si abbandona e così abbandona anche le altre cose. Sparisce il tempo, ci sono solo le maree, la notte e il giorno, ma più precisamente il buio e la luce. Il Boga viaggia e intanto Conti ci mostra il paesaggio, ci racconta un'Argentina di cui sappiamo poco, ma che esiste. Il Boga e gli incontri che farà, gente buona e gente cattiva, gente che non vorrebbe avere intorno, ma di cui non riesce a liberarsi, e che comunque gli sarà di un qualche conforto. Boga e l'inerzia, Boga che decide una cosa e poi cambia idea, Boga a cui forse piace solo lavorare alle barche, perché forse quel lavoro accompagnato dal rumore del fiume è una continuazione del suo stato d'animo. Una barca non si finisce mai di ripararla, e ci pare che sia la vita.

"I venti hanno rare virtù e possono toccare corde molto personali. Quel vento gli ricordò il fiume aperto e gliene portò la nostalgia. Fra la gente come lui non ce n'è uno che resista all'odore di fiume".

Il Boga è la sua storia ci fanno provare una profonda nostalgia e una grande ammirazione per Haroldo Conti, che riesce nell'impresa di scrivere un romanzo stupendo nel quale non accade quasi nulla; ma quel nulla è il senso di ogni cosa. A Conti non interessa il viaggio senza meta, a lui interessa la mutazione delle persone seppur in assenza di grandi accadimenti. La solitudine del Boga è la stessa che ognuno di noi qualche volta avrà provato, è lo smarrimento davanti alle cose più grandi, quando non siamo in grado di cambiarle ci lasciamo trasportare e così cambiamo noi; qualcuno scappa, qualcuno reagisce, qualcuno aspetta. Il Boga aspetta, avanzando di qualche metro, di qualche chilometro, girando intorno. Qualcosa accadrà oppure no, intanto è lui che accade perché esiste. In questo disegno di Conti domina il Sudeste che pare in grado di condizionare anche i pensieri di quelli a cui soffia sopra le teste.

La prosa di Conti è fluida, non si concede ad alcun eccesso ed è resa molto bene da Marino Magliani; spero che l'operazione di Exorma apra la strada alla traduzione anche di altri suoi libri. Haroldo Conti è uno scrittore che ci dimostra una volta di più che le strade della letteratura sudamericana sono infinite.

exorma edizioni
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