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Cultura

Il dramma delle madri dei foreign fighters. "Abbiamo provato a fermarli, non siamo il male"

Anadolu Agency via Getty Images
Anadolu Agency via Getty Images 

Hanno lasciato l'Europa, le loro case, le loro famiglie, i loro amici per andare a combattere una guerra accanto ai miliziani dell'Isis. Oltre 5500 foreign fighters, tra il 2011 e il 2015, sono partiti per la Siria e l'Iraq, senza essere ostacolati da nessuno. Neanche le loro madri sono riusciti a fermarli. È proprio a loro che è dedicato il libro "Stanno tornando. I foreign fighters jihadisti raccontati dalle proprie madri", scritto dalla giornalista Giulia Cerino, edito da DeriveApprodi.

Un'inchiesta per mettere in luce un problema troppo spesso sottovalutato: quello dei "ragazzi della porta accanto" che si radicalizzano proprio sotto i nostri occhi. E quello delle istituzioni che fanno finta di non vedere, che non attuano politiche di deradicalizzazione, che non ascoltano le madri. Perché se un giovane si fa saltare in aria non è solo colpa della famiglia che ha alle spalle: "Il fallimento non è solo quello delle madri - racconta Aziza, una delle donne intervistate per il libro - ma dell'intero sistema". "Queste mamme vivono un dolore atroce, non sanno se il figlio sia vivo o morto, vivono nel senso di colpa costante per non essere riuscite a salvarlo - spiega Giulia Cerino ad HuffPost -. E soprattutto sono piene di dubbi. È ora di prestare loro l'attenzione che meritano".

Chi sono i foreign fighters jihadisti di cui parli nel libro?

"Sono tutti giovani tra i 16 e i 30 anni, in gran parte europei, soprattutto francesi e belgi, che un bel giorno hanno deciso di andare a combattere con l'Isis. Sono ragazzi 'insospettabili', spesso appartenenti a buone famiglie, ma privi di direzione, senza obiettivi nella vita, con una grande rabbia dentro e in antagonismo con il sistema ufficiale. Questi giovani, fragili, trovano i propri valori di riferimento in persone che spesso gli fanno il lavaggio del cervello. E si radicalizzano, davanti al computer o nei luoghi della socialità, quali quartieri, piazze, centri sportivi. Apparentemente, però, sono persone semplicissime, di cui nessuno sospetterebbe mai".

E le loro madri?

"Le madri dei foreign fighters sono donne che soffrono: hanno i volti devastati, gli occhi tristi. In primo luogo, provano vergogna: si vergognano e si sentono colpevoli per quanto commesso dai figli. Questo anche perché la società tende subito ad additarle per non aver svolto a pieno dovere il proprio compito di madri, per non aver saputo educare o tenere a bada i propri figli. Quelle che, però, riescono a superare questo muro di vergogna, diventano rabbiose e combattenti: escono allo scoperto, raccontano la propria storia, denunciano l'abbandono subito da parte delle istituzioni. Provano un senso di rivalsa: vogliono fare luce e chiarezza sul fenomeno. In poche parole, vivono soltanto per 'rivendicare' la morte di questi ragazzi".

Queste mamme hanno provato in qualche modo a fermare i propri figli?

"Certo, molte si sono rivolte alle ambasciate o alle autorità appena scoperti gli intenti dei figli, aspiranti foreign fighters. Purtroppo, però, in molti casi la loro denuncia è stata vana: all'aeroporto questi ragazzi non potevano essere fermati per ragioni di tipo legale, perché maggiorenni. È questo il caso in cui la legge diventa prioritaria rispetto alla sicurezza. Dunque, si sono sentite non ascoltate dalle istituzioni".

Non è, però, l'unico caso in cui le madri non sono state appoggiate dallo Stato...

"Molte hanno vissuto l'inferno di avere un figlio lontano, in un territorio pericoloso, e di non saperlo né vivo né morto. Spesso lo Stato fatica a dichiarare morta una persona, senza averne la certezza, per paura che questa possa invece effettivamente tornare. Le madri rimangono così in un limbo e non riescono mai a mettere un punto, ad andare avanti. Talvolta anche i corpi non vengono restituiti. In sintesi, quindi, le istituzioni non sono in grado di riportare a casa il foreign fighter, né da vivo né da morto".

Quali sono i possibili argini a questa situazione?

"Prima di tutto, bisognerebbe riconoscere che il problema dei foreign fighters esiste, che esistono giovani della porta accanto che decidono di andare a combattere una guerra lontana e spesso non soltanto per colpa di genitori poco attenti o presenti. Insomma, bisognerebbe smetterla di pensare a questi ragazzi che compiono attentati come a casi isolati o come ai pazzi di turno. In secondo luogo, a mio parere, bisognerebbe partire dal basso, dalle scuole, migliorare il sistema educativo, parlare del fenomeno tra i banchi di scuola così come un tempo si parlava della droga. Bisogna fare formazione sul tema. È necessario anche educare le autorità: penso alla polizia impiegata nel sistema carcerario, il quale è, notoriamente, almeno in Italia, uno dei luoghi in cui i giovani si radicalizzano. Il personale dovrebbe, ad esempio, conoscere altre lingue oltre l'italiano per, banalmente, controllare ciò che i detenuti si dicono, per accorgersi se qualcuno sta progettando qualcosa".

Qual è la situazione in Italia?

"In Italia non abbiamo il fenomeno dei cittadini italiani che partono per unirsi all'Isis, ma abbiamo il fenomeno degli stranieri residenti in Italia che arrivano qui 'sani', ma che nel nostro Paese si radicalizzano. È un problema che, a mio parere, stiamo sottovalutando. In Italia abbiamo il problema delle carceri: poniamo l'esempio di un ragazzino che arriva da noi, pensa di aver scoperto l'Europa dei soldi facili, compie una marachella e finisce in carcere. Qui si radicalizza, esce, non viene rimpatriato, è libero di muoversi e, volendo, di continuare il progetto iniziato in prigione perché ha addosso tutto lo schifo che ha ingoiato nel frattempo. Oppure finisce per strada, tra spaccio, furti e rapine: non è difficile pensare che possa un giorno incontrare un individuo che, approfittandosi della sua fragilità, possa mettergli in testa strane idee".

In Italia stiamo lavorando per evitare che questi giovani si radicalizzino?

"Assolutamente no. Gli sforzi che stiamo facendo sono del tutto minimi in questo senso. Ad oggi, non ci sono linee guida. Servono politiche di deradicalizzazione, leggi fatte in questo senso. È quello che chiedono anche le madri dei foreign fighters. Le mamme, inoltre, sono le uniche che di fatto possono esercitare un controllo sociale sul fenomeno: meriterebbero di essere inserire nei programmi di deradicalizzazione".

Qual è la storia che ti ha più colpito?

"È stata quella di Anis Amri (presunto autore della strage del mercatino di Natale di Berlino del 2016, ucciso nello stesso anno vicino a Milano, ndr). Prima di tutto, perché si è radicalizzato in Italia e poi perché pone dei dubbi sulla versione ufficiale dei fatti: siamo sicuri che questo ragazzino non sia stato usato? Le autorità erano a conoscenza del fatto che fosse radicalizzato, perché non bloccarlo prima? Poi c'è la questione del documento: non viene rimpatriato perché non ha documenti, ma poi il documento magicamente si ritrova nella macchina con cui ha fatto l'attentato. Una casualità? Siamo andati a trovare la famiglia di Amri in Tunisia: sono persone totalmente fuori dal mondo, vivono in periferia, senza tv, senza internet. Le sue umili origini e il fatto che sia scappato da lì in cerca di fortuna lo rendono un individuo fragile, possibile preda di facili promesse. Magari qualcuno gli ha promesso dei soldi per fare quello che ha fatto. Inoltre le prove che sia stato proprio lui scarseggiano: ci sono delle foto in stazione, ma appare incappucciato. La madre di Amri continua ad avere dei dubbi e a pensare che forse sia stato usato in qualche modo. E, in effetti, potrebbe non avere tutti i torti".

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