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Politica

Caso Diciotti e arresto De Vito, la soumission M5s a Salvini

ASSOCIATED PRESS
ASSOCIATED PRESS 

Dicono tutto "i volti dell'onestà" tirati, le parole imbarazzate, la logica che si fa intermittente, nel grande cortocircuito politico-morale tra lo scudo concesso a Salvini, in nome della ragion di governo, e l'espulsione di Marcello De Vito, perché "quel che conta è la reazione", nell'ansia di urlare che la "diversità" non si è persa nelle manette scattate all'alba su un uomo forte del Movimento a Roma. E che, in questo caso, vale quella fiducia nella magistratura che sulla Diciotti invece non vale.

La sintesi, in questo giorno della vergogna per i Cinque Stelle, è in poche istantanee. A metà mattinata, ecco il povero Nicola Morra che attraversa la Sala Garibaldi al Senato, uno dei pochi cinque stelle che sfida l'imbarazzo, forse perché, da quelle parti, è un po' una Cassandra inascoltata. Ma su questo torneremo tra un po', sul suo "io l'avevo detto". In Aula ha appena finito di parlare Michele Giarrusso. Proverbiale la sua prosa da azzeccacarbugli meridionale, pomposa, roboante, eccessiva come il gesto delle manette che, qualche tempo fa, riservò ai senatori del Pd, quando i genitori di Renzi finirono ai domiciliari: "Nessuno può dubitare – dice con enfasi – che il cuore della democrazia si sta confrontando con se stessa e con i propri limiti. Il Movimento voterà no con orgoglio".

Proprio così, "orgoglio" per aver consentito - assieme a Forza Italia - che il ministro dell'Interno fuggisse dal processo. E orgoglio magari anche per aver stabilito che, in nome di un non ben precisato interesse nazionale stabilito dal Potere di turno, si possono tenere ostaggi migranti ed equipaggio su una nave dalla Marina Militare italiana. Altra istantanea, di quelle che fanno titolo. Matteo Salvini si alza dai banchi del governo. E si avvicina per una calorosa, vibrante, stretta di mano.

Dicevamo, ecco Morra, uno dei pochi che si ferma, mentre altri senatori accelerano il passo perché "siamo scioccati, è come se ti svegli la mattina con uno schiaffo e non sai perché". Si immola, di fronte al plotone di esecuzione delle domande: "Ribadiamo la nostra fiducia nella magistratura. La Diciotti? C'è stata una riflessione. Ho accettato le decisioni della maggioranza". È il primo a sapere che ci sono dei giorni in cui un uomo politico è costretto a fare a cazzotti con l'evidenza, consapevole che la valanga dei fatti travolge ogni appiglio. Perché qui non è questione solo di garantismo a corrente alternata, di giustizialismo a intermittenza, della più classica delle doppie morali per cui la corruzione degli altri è un "sistema" e quella propria "è un caso isolato".

Qui è una questione più profonda. Che riguarda l'identità e la perdita dell'anima. È questa perdita il filo che dà coerenza al tutto, la ragion di governo sulla Diciotti e la corruzione in Campidoglio, dove a metà mattinata sono ancora in atto le perquisizioni, come ai tempi di Mafia Capitale o dell'arresto di Raffaele Marra, altro snodo cruciale della catena di comando dell'amministrazione Raggi travolto da un'inchiesta per corruzione. Almeno stavolta l'asfissiante propaganda pentastellata ha risparmiato la solita litania del "ci critica chi rimpiange quelli di prima", di cui evidentemente sono stati assorbiti metodi e peccati, in una città eternamente uguale a se stessa, con i palazzinari che tengono la politica al "guinzaglio corto".

Non ha risparmiato invece la solita immagine di un sindaco eternamente estranea agli scandali che si perpetuano a "a sua insaputa", parte lesa per definizione, come se il "sistema" non fosse frutto di una mancanza di controllo e di capacità di governo. E dunque, delle due l'una: o è una incapace o è politicamente complice di quel che accade nella sua amministrazione ove la complicità è anche tolleranza e far finta di non vedere. Incapace di prevenire, vedere, controllare, selezionare, appunto governare, perché il primo antidoto alla corruzione è la capacità di governo, per cui occorre solo un buon sindaco e non un pubblico "ispettore" di polizia o chissà quali e quanti agenti provocatori infiltrati in assessorati e ministeri.

Torniamo a Morra, la Cassandra, da sempre voce critica. Ci dice: "È agli atti. Io una volta dissi che non basta cantarsi da soli 'onestà onestà', semmai bisogna dire 'umiltà, umiltà'. All'opposizione è tutto facile, ma è quando sei al governo che l'onestà la devi dimostrare, quando cioè hai la possibilità di rubare e non lo fai. E ora noi siamo al governo. Vediamo che succede alle Europee ma così è una emorragia". C'è poco da fare. La catastrofe politica e – perché no – la bancarotta morale del Movimento a Roma è tutta qui, in un sistema che si scopre permeabile e vulnerabile nel suo cuore pulsante. Il "salto di qualità" è nel grado di coinvolgimento rispetto ai precedenti scandali, legati ai "tecnici", come Romeo e Marra a cui il Movimento aveva delegato il compito di governare e amministrare. In questo caso si configura un sistema che ha un perno politico in un uomo forte del Movimento come De Vito, nel ruolo grande facilitatore di delibere per agevolare un sistema d'affari. È proprio questo sistema ad alimentare nei Cinque Stelle il terrore sugli sviluppi dell'inchiesta: il grado di coinvolgimento della macchina amministrativa o della giunta, l'eventuale complicità di altri pezzi di governo che attesterebbe la totale assenza di anticorpi. Ed è questa assenza di governo (e di anticorpi) che proietta l'instabilità del caso Roma a livello nazionale dove una classe dirigente, presentatasi come il San Giorgio contro il Drago dell'immoralità collettiva e di un Sistema marcio precipita nel baratro tra le aspettative suscitate e la perdita della propria identità, in un gorgo di cui non si vede la via d'uscita oltre il governismo più stantio.

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