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Economia

Decreto crescita, né soldi né ideone

Simona Granati - Corbis via Getty Images
Simona Granati - Corbis via Getty Images 

Era il 9 febbraio 2011 quando il Consiglio dei ministri, presieduto da Silvio Berlusconi, varò un pacchetto di misure per provare a dare sostanza a quella che il Cavaliere aveva annunciato come "la più grande frustrata al cavallo dell'economia". Obiettivi ambiziosi (Pil all'1,5% a fine anno e al 3-4% entro il 2016), risultati nulli. Quelle misure, ultimo respiro affannato della auspicata rivoluzione liberale del Pdl, erano imponenti quanto poco incisive. Non a caso erano a costo zero perché di soldi ce ne erano pochi e l'allora ministro dell'Economia Giulio Tremonti frenò qualsiasi ipotesi di nuove spese. L'Italia era in recessione e quel pannicello caldo non servì a far calare la temperatura. Otto anni dopo quelle dinamiche ritornano. Perché il decreto crescita che il governo gialloverde punta ad approvare venerdì per parare i colpi di un Pil in caduta libera è un provvedimento sì corposo, con ben 61 articoli, ma con pochi soldi freschi e contiene una serie di tante piccole misure che disegnano un progetto fragile dal punto di vista dell'impatto che possono avere. È un azzardo, una scommessa.

Il tentativo del governo di centrodestra, che pochi mesi dopo cadde sotto i colpi dello spread, non è il solo ad aver caratterizzato una lunga stagione in cui la politica ha provato a fronteggiare una crisi feroce, non riuscendo tuttavia a trovare la medicina giusta, quella risolutiva. Le analogie tra l'oggi e il recente passato contengono anche un altro esempio, rintracciabile nella cosiddetta politica del cacciavite che caratterizzò le scelte economiche del governo di Enrico Letta. Era il rifiuto degli slogan e il tentativo, difeso tra gli altri negli anni a seguire da Romano Prodi, di procedere con un approccio pragmatico, step by step, puntando su interventi normativi e non con riforme epocali. Anche in quel caso la cura non fu risolutiva.

Ritornando all'oggi, le norme contenute nel decreto crescita prevedono innanzitutto pochissime risorse che possono essere spese nell'immediato. Pochi soldi freschi per dirla in maniera secca. Ci sono 600 milioni a disposizione dei Comuni per strade, lampioni e scuole, e 200 milioni per il Fondo di garanzia per la prima casa. Aggiungendo altri 300 milioni per rendere più attrattive le cosiddette zone economiche speciali presenti nel Mezzogiorno, la lista dei soldi a disposizione termina qui. Per il resto ci sono agevolazioni e altre misure che possono generare magari risparmi, soprattutto sul fronte fiscale e in particolare per il mondo delle imprese, ma negli articoli non ci sono altre risorse.

La scarsa incisività del decreto sul fronte dell'apporto che può dare al Pil si deduce anche dalla natura delle norme stesse. Le tre macro-aree in cui è suddiviso il provvedimento sono "misure fiscali per la crescita", "misure per il rilancio degli investimenti privati" e "tutela del made in Italy". Nel primo comparto figurano misure generiche e da cui è difficile dedurre appunto l'impatto che possono avere sulla crescita. Si va dagli incentivi per il rientro dei "cervelli" dall'estero a quelli per rafforzare l'utilizzo delle piattaforme digitali per la compravendita di beni. Ci sono norme per incentivare le aggregazioni tra le imprese e anche lo "snellimento della procedura per la determinazione dell'entità del beneficio fiscale derivante da investimenti in innovazione in beni immateriali". Sono norme che puntano a semplificare, agevolare processi ingarbugliati, ma non è detto che una volta sciolti questi stessi processi portino a un risultato certo sul fronte della capacità produttiva che sono in grado di generare. Eccezioni - tra l'altro indicate nella bozza del decreto come nodi politici da risolvere - sono il ritorno del super-ammortamento, voluto dall'allora ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda con il governo Gentiloni: nella manovra era stato cancellato, ora è ripristinato anche se solo per nove mesi. C'è la revisione della mini-Ires, ma gli effetti sulla crescita sono vincolati ancora alla scelta che alla fine prevarrà perché al momento si parla di tre ipotesi, che conducono a tre effetti differenti: favorire la patrimonializzazione delle imprese, ridurre la pressione fiscale o favorire gli investimenti in beni strumentali. Per il resto c'è una serie di agevolazioni, come quelle date agli operatori dell'edilizia che potranno aumentare il volume dei palazzi da ristrutturare.

Secondo capitolo, misure per rilancio degli investimenti privati. Ci sono i minibond per potenziare gli strumenti di finanziamento delle piccole imprese. Il resto sono norme molto generiche come la "promozione di misure di sostegno dell'attività libero professionale e l'inserimento dei giovani professionisti". Altro esempio: la creazione di una piattaforma per gli investimenti di fondi pensione e casse di previdenza. L'obiettivo, indicato nelle tabelle, è "canalizzare le risorse" dei fondi e delle casse sull'economia italiana. Le cartolarizzazioni sono indicate in modo altrettanto vago. La terza parte, quella sul made in Italy, è un elenco di obiettivi più politici che economici. Si va dalla procedura speciale per salvaguardare i marchi storici agli interventi per facilitare i rapporti tra chi brevetta e le imprese. L'impatto sulla crescita non è neppure indicato come avviene per le altre voci, seppure in forma discorsiva e senza numeri.

Il decreto crescita si innesta in una situazione critica per l'economia. Le previsioni di crescita del governo, con il Pil collocato all'1% nel 2019, sono state ampiamente ridimensionate dai principali osservatori nazionali e internazionali e tra meno di quindici giorni va presentato il Documento di economia e finanza, dove le stime su Pil, deficit e debito vanno aggiornate in base al quadro attuale. Ecco allora che nelle intenzioni del ministro dell'Economia Giovanni Tria e di Luigi Di Maio, co-autori con le rispettive strutture, il decreto crescita diventa la fune a cui aggrapparsi per provare a tenersi attaccati alla montagna. Al Tesoro, infatti, si lavora per quantificare la portata del decreto in termini di Pil in modo che il valore dell'indicatore possa risalire, giustificando così la non necessità di ricorrere a una manovra-bis. Tradurre, però, in numeri quanto scritto nel provvedimento è un'operazione alquanto complessa proprio perché stimare l'effetto leva di queste norme è un processo legato a troppe variabili. Si prova a dare movimento ad alcuni settori, ma non è detto che questo movimento si generi e soprattutto che abbia la forza di generare a sua volta profitto, crescita. Il governo ci crede: dopo la frustrata e il cacciavite, però, anche il decreto crescita rischia di rivelarsi un palliativo e non una cura.

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