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Politica

Direzione Pd, disarticolato il renzismo

Ivan Romano via Getty Images
Ivan Romano via Getty Images 

Gli effetti speciali, per gli amanti della politica spettacolo, non ci sono. Perché l'uomo (Zingaretti) è fatto così. Mite. Graduale, in ogni passaggio. Il "passo dopo passo", non lo strappo. Però, nella sostanza politica, c'è una notizia, non irrilevante, alla prima direzione del Pd della nuova era. Che non è solo un nuovo clima, composto, non polemico, attento. Il che è di per sé una notizia, nel day after della Basilicata. Ma qualcosa di più. E cioè un consenso ampio attorno a un nuovo posizionamento politico del Pd, che vale per le Europee ed evidentemente per il dopo. Ecco la proposta: "Il nostro simbolo – dice Zingaretti - sarà quello del Pd con un riferimento al gruppo Socialisti e democratici e la scritta 'Siamo europei'".

Consenso ampio, perché la relazione è stata votata dal grosso della direzione. Anzi, sulla relazione si è disarticolato il renzismo che fu, con l'area di Guerini-Lotti-Martini che l'ha votata, senza neanche tanti distinguo. E i 17 irriducibili di Giachetti e Ascani che si sono astenuti. Insomma, se la direzione doveva essere il luogo per il primo tagliando del nuovo corso, con la scusa della Basilicata, questo rischio è stato disinnescato. Per comprendere meglio, occorre riavvolgere la pellicola del film a un mese fa, quando Renzi girava l'Italia per presentare il suo libro alimentando la suggestione della "scissione", il veleno scorreva nel corpo del corpo del Pd, la domanda era su quanti sarebbero stati disposti a seguirlo e alcuni dei suoi minacciavano il "ce ne andiamo se Zingaretti torna a fare i Ds con quelli che se ne sono andati". Un mese dopo, il partito, pressoché nel suo insieme, dà il via libera a una lista sostanzialmente del Pd, ma aperta agli altri, che dia il senso di un fronte democratico e progressista, certo alle Europee ma, se l'esperimento funziona, è chiaro che indica una direzione di qui alle politiche. Aperta al centro e a sinistra. Per intenderci, da Calenda a tutti coloro che si riconoscono nel Pse, come Articolo 1 e i socialisti di Nencini, sulla base del ragionamento che non ha senso tenere diviso in Italia ciò che è unito in Europa.

Parliamoci chiaro: è la rottura di un tabù, perché si tratta del primo, serio, innesco di un processo politico nuovo anche col "diavolo", inteso come coloro che se ne sono andati, sia pur in forme prudenti, perché, per favorire la composizione del quadro, "Articolo 1" dovrà acconsentire una certa gradualità e morbidezza, a partire magari da una rinuncia a candidare tutti gli uscenti, puntando su facce nuove, non divisive, e che non suscitino mai sopiti rancori. Però è altrettanto chiaro che, comunque, una campagna comune, in una stessa lista, innesca un processo graduale.

Più in generale siamo di fronte a un recupero, in perfetto spirito ulivista, di una diversa concezione del ruolo del Pd nella società e nel sistema politico italiano, come perno di una alleanza più larga. Il passaggio chiave è questo: "In questo istante in Italia si stanno ricostruendo alleanze con corpi diversi, Democrazia solidale, Più Europa, Articolo 1, il movimento di Pizzarotti che ha firmato una alleanza con Chiamparino. Non si tratta di ricomposizioni ma di trovare una nuova dimensione affinché non si perda, contro i populismi, neanche un voto. Alla mezzanotte del 26 maggio il mondo e l'Europa guarderanno dove sarà arrivata la nostra colonnina".

In fondo, la politica è innanzitutto realismo. Si misura in termini di voti. Tanto per fare un esempio, proprio in Basilicata i numeri rendono l'idea. Il Pd ha preso il 7,7 per cento, una lista socialista il 3,5, "Articolo 1" il 4,5. Direbbe Catalano: il 15 è meglio del 7,7, al netto delle elucubrazioni sul voto utile che, in questi anni, hanno avuto l'effetto di produrre il voto utile sugli altri. È quel che dicono tutti i sindaci, a partire da Dario Nardella a Firenze, impegnati nello stesso giorno in una battaglia campale in oltre tremila comuni: poche chiacchiere, allarghiamo il più possibile e proviamo a vincere.

È vero, manca ancora la grande suggestione, il grande sogno, la spinta emotiva. Però è chiaro e ragionevole quel che sta accadendo. Zingaretti, eletto segretario il 4 marzo, ha due mesi di tempo per preparare la sua prima prova del fuoco, consapevole che, come si dice in gergo, "senza il soprasso", verrebbe risucchiato in un gorgo senza fondo sia la sua segreteria – altro che fuoco amico - sia lo stesso Pd. Perché il tema delle Europee è già diventato il "sorpasso". Il chi arriva secondo tra Pd e Cinquestelle. Non il plebiscito annunciato di Salvini. È quello il risultato che cambia la fase. E ri-politicizza la dinamica sull'asse destra-sinistra, dopo un anno in cui la "narrazione" è rimasta inchiodata attorno a quella tra élite e popolo, col Pd inchiodato al ruolo di establishment morente.

Il neo-segretario ha scelto la strada non della rivoluzione ma della "rigenerazione", provando a mettere ordine e a rivilitalizzare un campo, aprendo il più possibile, senza rompere ciò che di per sé è già fragile. Per ora, un'ulteriore rottura traumatica del Pd sembra essere stata disinnescata. Resta un problema che è più di fondo. Abruzzo, Basilicata, Sardegna, dicono che il marchio Pd è piuttosto logoro, anzi in alcuni casi l'operazione messa in campo dai candidati governatori è stata quella di nasconderlo, per intercettare una "sinistra diffusa" con un sistema di liste civiche. Ne è risultato, più che un nuovo compiuto bipolarismo, una situazione politicamente ancora informe, di un polo che esiste nel paese, ma non più Pd-centrico. Far tornare nelle vene del partito questa circolazione extra-corporea è la scommessa, in una situazione in cui ci sarà comunque la competizione al centro con la lista della Bonino e a sinistra con quella di Verdi e Pizzarotti. In fondo, la guerra si fa con i soldati che uno ha.

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