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Politica

Il controviaggio americano di Di Maio

AGI
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Di Maio "l'amerikano". Progettato da mesi e definito nelle ultime settimane, la congiuntura politica ha trasformato il viaggio di Luigi Di Maio negli Stati Uniti in una risposta alla cinque giorni che ha visto il leghista Giancarlo Giorgetti protagonista oltre Atlantico non più di qualche settimana fa. Con lo spettro della crisi che a Roma si tinge del verde leghista. Perché nessuno, nella war room del capo politico ha capito quali siano le reali intenzioni dell'alleato. Ma serve comunque prepararsi in qualche modo. E nella narrazione della politica diventa un altro tassello di quella strategia comunicativa che il Movimento 5 stelle sta provando a cucire sopra gli impeccabili abiti del leader per uscire dal cul de sac in cui lo aveva spinto l'efficacia comunicativa del Carroccio e gli oggettivi scarsi, scarsissimi raccolti delle tornate elettorali d'inverno.

Una situazione di difficoltò intorno alla quale i suoi hanno steso prontamente un cordone sanitario. Il gruppo parlamentare mormora, ondeggia. Le sensibilità si affastellano e si rincorrono, complicato monitorarle costantemente. Sentite cosa dice un senatore non di primo pelo: "Se andiamo sotto il 20% alle europee Luigi rischia? Ma no, nessuno lo mette in discussione". Non si fa in tempo ad abbassare la guardia di fronte all'ennesima dichiarazione di circostanza che ecco il doppio passo: "In quel caso in discussione ci si sarebbe messo da solo".

Lo spettro di sondaggi in picchiata, di voti nelle regioni che evaporano e di un corpaccione di onorevoli e militanti al momento sotto la soglia d'allarme, ma in continuo movimento, non fanno dormire sonni sereni al leader. "Abbiamo smesso di subire e basta. Ora rispondiamo colpo su colpo. E se ce n'è bisogno qualcuno lo tiriamo prima noi" il ragionamento del capo politico ai suoi. E così la visita negli States capita a puntino per rispondere con i fatti ai sospetti arrivati dalla Lega dopo la firma degli accordi con la Cina sulla via della seta. Una tre giorni in cui prima si recherà alla Borsa di New York, e nella grande mela avrà incontri con la comunità d'affari italiana e con una serie di investitori fatti sedere intorno a un tavolo da Merryl Lynch, e poi volerà a Washington, dove avrà due bilaterali con il Segretario di stato al Commercio, Wilbur Ross, e con il Consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton. Un carnet di incontri nutrito, per spazzare via quell'aura di anti-atlantisti e critici della Nato che l'alleato gli vuole appuntare sulla giacca.

Ma se New York è la rosa, il gambo con le spine si conficca pesantemente a Roma. Prima a Quarta Repubblica su Rete4 e poi in un'intervista al Corriere della sera Di Maio ha buttato nell'agone parole interlocutorie: "Serve un chiarimento con gli alleati". Da dove passi e cosa comporti è tutt'altro che chiaro. È vero che i 5 stelle hanno iniziato a fare la voce grossa. E qualche risultato, almeno sul piano dello storytelling, lo hanno incassato (Tav, revoca del patrocinio della presidenza del Consiglio al Forum delle famiglie di Verona, cittadinanza a Ramy). Ma è anche vero che nessuno al momento sembra disposto a tirare la corda fino alle conseguenze che sarebbero necessarie per sedersi al tavolo di poker del potere: la crisi di governo.

Nessuno la evoca, nessuno la vuole. L'arma finale che richiederebbe la nuova strategia nasce spuntata. Certo, oggi si dice che "non è un tabù", che "ci prepariamo a qualunque evenienza". Ma la palla viene costantemente buttata nel campo di Salvini: "Crisi? La Lega non ha nessun interesse a farla. E poi c'è il Quirinale, non è affatto detto che si vada al voto" ragiona Luca Carabetta. "Se arriva non ci spaventa – spiega uno dei vertici della comunicazione – ma a Salvini non conviene". "La Lega tenta di screditare l'operato del M5s ma sono fatti superabili, che non mettono a rischio il governo", getta acqua sul fuoco Riccardo Fraccaro.

Di Maio prova a risalire la china, e il mood battagliero punta a fermare l'emorragia di consensi e a rispostare verso sinistra il baricentro dei 5 stelle. Quello di un Pd ancora non riorganizzato è il vero bacino a cui si punta, considerando l'altra metà dell'emisfero politico già saturata. In quest'ottica rientrerebbe anche la (nuova) chiamata alle armi di Alessandro Di Battista, disfunzionale in un periodo in cui il registro comunicativo era diverso, estremamente amalgamabile al nuovo corso. Sempre che l'interessato si presti a fare il semplice eurodeputato, dopo anni di rumors che lo proiettano ai più disparati incarichi. Il punto politico è che nella war room di Di Maio quali siano le intenzioni di Salvini non si è capito. Perché i continui proclami di un governo di legislatura puzzano di bruciato. E perché il post europee è un'incognita terribile: "Dal 26 maggio al cantiere per la futura legge di stabilità è un attimo – riflette un deputato – Come ci organizziamo?". Ecco, l'organizzazione, altra spina nel gambo che il leader tiene in mano. Nella prima metà di aprile due assemblee di parlamentari per iniziare a far quadrare il cerchio. E accuse di centralismo nelle scelte che già saettano in Transatlantico. Carabetta, uomo sempre più dentro l'inner circle del vicepremier, rassicura: "Luigi non è in discussione". C'è bisogno di dirlo?

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