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Esteri

La mano del Mossad contro la diplomazia nucleare fra Usa e Iran

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Il blackout elettrico registrato nel weekend all’impianto nucleare di Natanz, in Iran, complica la diplomazia nucleare in corso a Vienna, dove la settimana scorsa è cominciato un percorso di progressivo riavvicinamento degli Stati Uniti e dell’Iran all’accordo nucleare del 2015 (JCPOA). Teheran accusa apertamente Israele e minaccia “vendetta” per “un atto di sabotaggio” che avviene all’indomani dell’inaugurazione di nuove centrifughe avanzate per l’arricchimento dell’uranio e in concomitanza alla visita a Gerusalemme del segretario alla Difesa Usa Austin Lloyd. Secondo il capo dell’Organizzazione dell’energia atomica, Ali Akbar Salehi, si è trattato di un “attacco terroristico” per il quale Teheran “si riserva il diritto di agire contro gli autori”.

Fonti di intelligence occidentale hanno affermato che si è trattato di un cyber-attacco, opera del Mossad israeliano, che ha causato “gravi danni al cuore del programma di arricchimento” dell’uranio, poche ore dopo che sono state inaugurate le centrifughe insieme a una nuova parte della struttura, colpita l’estate scorsa da un’esplosione sospetta. Il governo israeliano ha formalmente rifiutato di commentare l’episodio, ma funzionari americani e israeliani hanno confermato separatamente al New York Times che Israele ha svolto un ruolo. Diverse agenzie di stampa israeliane, citando fonti dell’intelligence, hanno attribuito l’attacco al Mossad, l’agenzia di spionaggio israeliana. Gli Usa hanno preso le distanze dall’attacco, dicendo di non averci nulla a che fare.

 

 

Per Riccardo Alcaro, responsabile del programma di ricerca Attori Globali dello IAI, l’episodio aumenta le difficoltà dell’amministrazione Biden nella ripresa dei negoziati sul nucleare iraniano, ponendo Washington di fronte alla propria debolezza rispetto alle istanze presentate dai suoi alleati nella regione, in particolar modo Israele e Arabia Saudita.

In ballo c’è il futuro dei negoziati tra Usa e Iran. Nei giorni scorsi nella capitale austriaca si sono svolti i primi colloqui indiretti tra Usa e Iran in occasione della Commissione congiunta del JCPOA, l’accordo internazionale sul nucleare firmato nel 2015, nel tentativo di provare a salvare l’intesa dopo il ritiro unilaterale degli Usa nel 2018 da parte dell’amministrazione Trump e il seguente disimpegno di Teheran dai suoi obblighi. La nuova amministrazione Usa si è detta disponibile a rientrare nell’accordo, ma chiede a Teheran di impegnarsi nuovamente a rispettarne i termini, mentre l’Iran pretende prima la revoca delle sanzioni americane. I colloqui proseguiranno durante questa settimana, ma gli eventi delle ultime ore aggiungono nuove incognite a un dossier già complicato di suo.

“Teheran vuole che Washington abbandoni la politica di ‘massima pressione’ adottata da Trump”, spiega Alcaro ad HuffPost. “In sostanza, questa politica consiste nell’adozione di un numero impressionante di sanzioni, tra cui pesano soprattutto quelle secondarie, di natura extraterritoriale. Queste sanzioni di fatto minacciano multe o altre penalità per le compagnie o le banche straniere, comprese quelle europee, che vogliano fare affari in Iran, mettendole di fronte a un aut aut: o commerciano con l’Iran o con gli Stati Uniti. Chiaramente, si tratta di un’alternativa del tutto accademica, perché non esistono banche – soprattutto – per le quali le due economie siano paragonabili. A causa di queste sanzioni, i rubinetti del credito si sono chiusi, impedendo a europei e iraniani di realizzare quei benefici economici che erano stati promessi a Teheran come parte dell’accordo”.

Durante la campagna elettorale, Biden aveva espresso chiaramente l’intenzione di riattivare la diplomazia nucleare con l’Iran. Quando è stato eletto, accanto a questa promessa, ha posto la condizione che la diplomazia nucleare dovesse riportare l’Iran al di sotto dei limiti imposti e creare una piattaforma per ulteriori negoziati per rendere l’accordo più duraturo. A quel punto però Teheran ha alzato la posta, limitando anche l’accesso agli ispettori Onu.

“Si è creata così una strana situazione – prosegue l’analista IAI - in cui sia a Washington sia a Teheran c’è una chiara volontà di riattivare la diplomazia nucleare, ma c’è una difficoltà politica enorme nel fare il primo passo. Gli americani insistono sul fatto che sia l’Iran a dover tornare per primo al rispetto dell’accordo, per poi poter parlare di revoca o sospensione delle sanzioni. Gli iraniani sottolineano che gli americani hanno violato l’accordo per primi, e quindi chiedono di iniziare dallo stop alle sanzioni. Biden ha deciso che questa soluzione è politicamente troppo complicata per lui, quindi si è creato uno stallo. Dobbiamo tenere presente che c’è una fortissima opposizione nel partito repubblicano, e anche in parte in quello democratico, all’accordo nucleare del 2015. Questa opposizione ha la sua sorgente nella fortissima avversità al JCPOA espressa dagli alleati regionali degli Usa: Israele in primo luogo, poi l’Arabia Saudita e in misura minore gli Emirati Arabi Uniti”.

 

 

Israele si è sempre opposto ferocemente all’accordo, considerato insufficiente. Il premier Benyamin Netanyahu lo ha ribadito anche oggi, incontrando a Gerusalemme il ministro della difesa Usa Lloyd Austin: “In Medio Oriente non c’è minaccia più pericolosa, seria e urgente che quella posta dal fanatico regime di Teheran”. Usa e Israele – ha proseguito – “concordano sul fatto che l’Iran non debba mai entrare in possesso di armi nucleari. Come premier non permetterò mai che Teheran ottenga la capacità nucleare di portare a termine il suo obiettivo genocidario di eliminare Israele. Israele continuerà a difendersi dall’aggressione iraniana e dal suo terrorismo”. Nel suo intervento Austin - che secondo i media non ha mai citato l’Iran - ha risposto di essersi recato a Gerusalemme “per consultazioni serie con Israele e per affrontare le sfide comuni nella regione”. Ha poi ribadito il sostegno dell’amministrazione Biden alla “sicurezza di Israele e a un vantaggio militare qualitativo nella regione”.

Il punto è che l’amministrazione Biden si muove su un terreno scivolosissimo, perché mentre la Casa Bianca sta valutando le sue opzioni per riattivare la diplomazia nucleare, Israele gli sta rendendo la vita molto più complicata.

“A Washington mettersi contro Israele diventa politicamente dannoso per chiunque è al potere”, osserva il responsabile di ricerca IAI. “Obama ha pagato un prezzo, sicuramente in termini di capacità di sviluppare oltre la propria politica estera in Medio Oriente. Biden vorrebbe evitarlo, ma Israele si sta mettendo di traverso. Israele è in una posizione particolare: è abituato ormai da anni a influenzare enormemente la capacità di azione del presidente americano in Medio Oriente quando si tratta di Iran senza doversi preoccupare di eventuali ricadute negative sulla relazione USA-Israele. Ora, nel momento in cui Biden sta valutando le sue opzioni per riattivare la diplomazia nucleare, Israele gli sta mettendo i bastoni tra le ruote. Ha cominciato quando Biden non era ancora in carica, con l’assassinio del principale scienziato nucleare iraniano. La settimana scorsa c’è stato un attacco contro una imbarcazione iraniana delle Guardia rivoluzionarie del Golfo, a quanto pare deciso da Israele; e sabato c’è stato il blackout della centrale nucleare di Natanz. Queste sono azioni che si possono classificare come sabotaggio della diplomazia nucleare in corso a Vienna”.

Quanto all’Iran, c’è da sperare che i vantaggi di un ritorno al tavolo negoziale superino la voglia di vendetta che pure in queste ore emerge da molte dichiarazioni. Secondo Alcaro, ci sono buone possibilità che sia così perché i benefici di una eventuale normalizzazione delle relazioni economiche con l’Europa ha una duplice valenza: economica e strategica. “Oltre al vantaggio economico, c’è quello strategico: sin dalla sua fondazione, il principio guida della Repubblica islamica è stato quello dell’indipendenza strategica, vale a dire la capacità di ritagliarsi uno spazio nel quale perseguire una politica estera autonoma”. Questi anni di massima pressione da parte americana – osserva l’analista - hanno portato l’Iran a uno strangolamento finanziario a causa delle sanzioni extraterritoriali, ma non a un isolamento diplomatico internazionale, come invece era stato il caso prima dell’accordo nucleare. “Dopo il ritiro americano dal JCPOA, gli europei sono rimasti un po’ in mezzo, bloccati, tirati da entrambe le parti: politicamente hanno difeso l’accordo, ma nei fatti sono rimasti agganciati alle posizioni di Washington. Russia e Cina, che ugualmente hanno dovuto piegarsi alle sanzioni extraterritoriali americane, hanno offerto un livello superiore di copertura politica all’Iran. Nel tempo soprattutto i cinesi hanno iniziato a sviluppare strategie per ridurre la vulnerabilità alle sanzioni finanziarie Usa, facendo dell’Iran un campo di prova. Questo ha portato Teheran a schiacciarsi su Mosca e Pechino, una circostanza che se ha il vantaggio di creare un livello di protezione politica da Washington, ha anche il grande svantaggio di ridurne la capacità di azione e l’autonomia in politica estera”. In questo modo, l’Iran diventa dipendente da due grandi potenze sempre più allineate in chiave anti-Usa, condannandosi al ruolo di anello debole di un triangolo di forze anti-americane.

Per Teheran, si tratta di un’opzione, ma non la preferita, che resta quella di costruire sull’accordo nucleare per avere una relazione economica normalizzata con gli europei e una qualche forma di dialogo con Washington. Per gli Usa, allo stesso tempo, la priorità in politica estera è la sfida alla Cina e alle autocrazie dell’est. Rafforzare quel fronte, seppur con un anello debole, non è nell’interesse nazionale di Washington, che a questo punto è chiamata a ribilanciare i rapporti di forza con i suoi alleati in Medio Oriente.

Vale la pena ricordare che il futuro del JCPOA serve l’interesse europeo, americano e globale nella preservazione del regime di non-proliferazione internazionale: se crolla e l’Iran abbandona il Trattato di non-proliferazione (TNP) lanciandosi in un programma militare, altri Stati nella regione potrebbero emularlo, il che sarebbe la fine o quasi del TNP che è un pilastro della sicurezza internazionale. Un programma nucleare iraniano fuori dai termini del JCPOA inviterebbe altri Stati (Israele e/o Usa) a un’azione militare per rallentarlo o distruggerlo. Visto che l’Iran reagirebbe attivando i suoi alleati in Siria, Iraq, Libano e Yemen, il rischio è di un conflitto regionalizzato.

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