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Politica

La spada di Damocle sulla legislatura

Reuters
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Ai piani bassi di Palazzo Madama è tutto un brulicare intorno alla manovra. Si votano emendamenti tra stop, rinvii e accelerazioni, in una corsa contro il tempo per inviarla a Montecitorio. Un paio di piani più in alto c’è un cartello con una freccia: “Firme per il referendum”. Con la legge di bilancio innestata su un binario dalla quale è molto difficile farla deragliare, la partita delle partite sul futuro del governo la si può andare a scovare seguendo quella freccia.

Servono le firme di sessantacinque senatori per far curvare il destino della legislatura. Tante bastano per raggiungere il quinto degli autografi necessario in una delle due Camere per richiedere il referendum sul taglio dei parlamentari. Il pallottoliere al momento segna quota cinquantadue. Cinque settimane per tredici firme. Tredici firme per cambiare il corso degli eventi. In un caso o nell’altro. Esistono due correnti di pensiero. La prima è che i peones abbiano tutta l’intenzione di far scattare la nuova legge. Meno seggi significano meno possibilità di essere rieletti, che significa una forte spinta all’autoconservazione da parte di questo Parlamento. La seconda è che i peones abbiano tutta l’intenzione di far celebrare il referendum. Perché tra i tempi tecnici, la campagna elettorale, il voto e la ridefinizione dei collegi, la finestra elettorale si riaprirebbe tra fine settembre e inizio ottobre, complicando in questo modo la strada verso il voto.

La stabilità del seggio – che ha come approdo naturale la stabilità della legislatura – è l’elemento comune che fa oscillare il pendolo tra la prima e la seconda scuola. È Pierferdinando Casini il principale sostenitore della prima ipotesi. “Pier è molto attivo nel tirare il freno a mano – spiega un suo collega – va in giro a spiegare che il miglior modo per blindare la durata di questo Parlamento è far scattare il taglio degli eletti”. A quel punto, è il ragionamento dei frenatori, anche i leghisti e i fratelli d’Italia, gli unici che sono sicuri di fare il pieno di voti, ci penserebbero due volte prima di staccare la spina. Perché la riduzione dei seggi metterebbe a rischio pure quelli di coloro che oggi sono certi di un altro giro di giostra.

Nei corridoi del Senato sono convinti che gli estensori della proposta referendaria stiano semplicemente alla finestra. C’è tempo fino al 12 gennaio per far partire la macchina. E arrivare prima a quota sessantacinque equivarrebbe accelerare le mosse di chi vuole andare al voto con regole invariate. “Le posso assicurare che così non è”, risponde Andrea Cangini, uno dei tre promotori. Una sorta di Nazareno dell’anti anticasta, visto che tra gli estensori figurano anche il collega azzurro Nazario Pagano ma anche il senatore del Pd Tommaso Nannicini. “L’obiettivo – continua Cangini – è portare nel paese il dibattito sulle istituzioni, sul ruolo del Parlamento e sui partiti che è stata travolta dalla narrazione dei partiti e dall’ignavia dei proponenti”.

I firmatari sono trasversali. Tra questi si segnalano anche quattro 5 stelle. C’è Ugo Grassi, capogruppo in commissione Affari costituzionali in rotta di collisione con Luigi Di Maio, ma anche il barricadero Mario Giarrusso e l’avvocato Francesco Urraro, che anche sul fine prescrizione mai ha manifestato critiche puntute alla leadership. E se la maggioranza è di Forza Italia, si registrano anche gli autografi del senatore a vita Carlo Rubbia e Emma Bonino, ma anche quelli dei Dem Pittella, Verducci e Merlo e della renziana Laura Garavini. L’inquilino del Colle più alto di Roma è un fine conoscitore della Costituzione, delle istituzioni e delle regole del gioco di Palazzo. “Quando spiegava che non si poteva andare al voto perché c’era il referendum – spiega un senatore – abbiamo avuto il primo boom delle firme”. Poi però c’è stata una frenata, per rinsaldare Giuseppe Conte: “L’unica alternativa è il voto”. “Quel che dice il Presidente è abile tattica politica – dice uno dei firmatari – ma cosa succederà se veramente arriviamo alle sessantacinque firme?”. Poi chiosa sornione: “Perché ci arriviamo”.

La spada di Damocle delle urne referendarie, oltre a pendere sul collo della legislatura, incombe anche su uno scenario che potrebbe essere del tutto inedito. L’incrocio di date è pazzesco. Entro il 12 gennaio si saprà se sarà o meno referendum, tre giorni dopo la Corte costituzionale deciderà sull’ammissibilità del referendum leghista, che mira ad abolire la quota proporzionale dell’attuale legge elettorale. Il tutto mentre la Camera accelera i lavori per l’ennesimo nuovo testo che sostituisca il Rosatellum, un proporzionale mutuato dal sistema spagnolo senza premio di maggioranza e con uno sbarramento naturale dettato dal numero di eleggibili per collegio.

Il Quirinale osserva con attenzione (“E anche un po’ di apprensione”, suggerisce un bene informato) questo spericolato incrocio di date. Il cronoprogramma in caso di referendum, in teoria, calcia il barattolo di un’ordinata apertura della fase elettorale assai più in là nel tempo. Spetta anzitutto alla Corte di cassazione pronunciarsi sull’ammissibilità, in un lasso di tempo che, fra ricorsi e decisione, potrà essere di 20 o 30 giorni. Una volta passato, l’indizione è prevista entro i 60 giorni dall’ordinanza che lo ammette, per poi svolgersi in una domenica tra il cinquantesimo e il settantesimo giorno successivo all’ordinanza stessa. Prima dell’entrata in vigore del nuovo sistema, passeranno altri 30 giorni per la proclamazione del risultato, la pubblicazione della legge costituzionale e la vacatio legis. Infine, in caso di esito positivo, in base all’articolo quattro della legge sul taglio dei parlamentari le nuove norme potranno essere applicate non prima dei sessanta giorni dalla loro entrata in vigore.

Prendiamo il calendario. Anche volendo far coincidere gli ultimi sessanta giorni con l’indizione dei comizi elettorali, dal 12 gennaio, si arriverebbe a metà giugno prima di indire nuove elezioni. Un contesto che riproporrebbe la prima data utile in piena estate, un timing che Sergio Mattarella già in passato ha manifestato di non gradire, rendendo di fatto più probabile un voto autunnale, con tutti i rischi connessi all’iter della legge di stabilità.

Se, entro il 12 gennaio, verrà presentata la richiesta di referendum, si entrerà in territorio incognito. Perché Mattarella potrebbe sì sciogliere le Camere e precedere la tornata referendaria, ma la decisione non avrebbe precedenti normativi o giuridici ai quali appellarsi. E c’è chi fa notare che, nel caso si accavallassero i tempi di nuove elezioni, sarebbe messa in discussione la legittimità di un nuovo Capo dello stato eletto da un Parlamento eletto con regole ormai non più in vigore, i cui equilibri e la cui rappresentatività sarebbero profondamente diverse da quelle che deriverebbero dalle modifiche intercorse solo qualche mese prima ma destinate ad applicarsi solo dalla legislatura seguente.

A stabilizzare la situazione ai piani alti di Pd e M5s contribuiscono altri elementi. Le 578 nomine che andranno fatte da febbraio a giugno. E una proiezione riservata che circola in ambienti, sia di centrodestra che di centrosinistra. Con i numeri e le regole attuali, il Pd la spunterebbe in un numero che va dagli otto ai dodici collegi in tutta Italia. I 5 stelle in nessuno. Con la coalizione a trazione salviniana che potrebbe addirittura arrivare a sfiorare i due terzi degli eletti. A quel punto la questione non sarà più tanto chi verrà indicato come presidente della Repubblica. Ma se verrà eletto con il presidenzialismo o meno.

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