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Federico Freni: “La Liberazione non ha padroni, dividersi non serve”

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La lettera del sottosegretario all’Economia sul significato del 25 Aprile anche per la destra

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Caro direttore,

è un Paese ben strano, il nostro. Il 25 aprile, una festa che è di tutti, diviene ogni anno occasione per dividerci. Ci si accapiglia sul fascismo storico e ancora di più su fascismi nuovi e antifascismi rinnovati. Oggi che le categorie storiche classiche del fascismo e dell’antifascismo non esauriscono più una realtà assai più articolata, sembriamo vittime di un lessico arcaico e inutilmente conflittuale, prigionieri di schemi identitari che ricordano i sonnambuli di Broch piuttosto che raccontare il Paese di oggi. Corriamo così il rischio fatale di distrarci, di non vedere oltre la stretta contingenza.

Questa festa va onorata e commemorata insieme, ad occhi ben aperti. Evitando, appunto, sonnambulismi e posture campanilistiche.

Nel 1952 quando Calamandrei dettò l’epigrafe che ancora oggi è collocata nel Palazzo Comunale di Cuneo non avrebbe potuto immaginare che più di 70 anni dopo quello stesso popolo sarebbe stato chiamato a confrontarsi con altri e diversi fascismi. Magari più lontani dalla Storia, ma terribilmente vicini a noi.

In ogni italiano c’è un pezzetto di quell’epigrafe. C’è un pezzetto di quei valori che ci consentirono, tutti, di riunirci “volontari per dignità e non per odio” nella casa comune che oggi abitiamo. Che il nostro voto vada a destra o a sinistra, a Tizio o a Caio, in ognuno alberga “quel patto giurato tra uomini liberi”. Commemorare il 25 aprile significa anche inverare quei valori giorno dopo giorno, non fosse altro per poterci dire, senza arrossire, antifascisti autentici e non di maniera. Così, di fronte alle tensioni che attraversano la questione mediorientale, è sin troppo facile gridare al pericolo fascista, o inneggiare a nuovi antifascismi. Beninteso, sarebbe un errore troppo grave ridurre la questione palestinese all’efferatezza del terrorismo di Hamas, ma deve essere chiaro che Israele non è, non può essere, inquadrato come il nuovo pericolo fascista. Occorrono, allora, lenti capaci di guardare oltre lo strato in superficie, oltre la manifestazione in chiaro di una escalation inaccettabile.

Il nuovo fascismo è quello che ci porta a credere piuttosto che a giudicare, che ci conduce in un gorgo di “si dice”, che oblitera scientemente il riconoscimento di quei valori democratici che appartengono alla storia di Israele così come alla questione palestinese. Perché il nuovo fascismo è quello che, in Medioriente come a casa nostra, non vuole, o forse non sa, più distinguere. È quello che, in nome di una omologazione egualitaria, ci invita ad accettare schemi identitari (talvolta anche grafici e sintattici) preconfezionati. Lo sguardo è suadente, il tono della voce invogliante: tanto basta per addormentare le coscienze. Tanto basta per vivere come un peso inutile quel “patto giurato tra uomini liberi” di cui siamo debitori ai nostri padri e ai nostri nonni, ma che dobbiamo alimentare quotidianamente per non farne, come troppo spesso accade, un ricordo da rispolverare un paio di volte l’anno. Solo così potremo, generazione dopo generazione, essere ancora quel “popolo serrato intorno al monumento che si chiama ora e sempre resistenza”.

L’autore è sottosegretario all’Economia

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