Il nuovo senso delle email

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Ci voleva il coronavirus -  e questa esplosione di comunicazioni digitali - per far diventare improvvisamente datato lo strumento principe su cui si è da sempre basata la nostra vita digitale: l'email. Non che non ci fossero già prima segnali di invecchiamento, naturali del resto per una tecnologia che fra qualche mese taglierà il traguardo dei 50 anni: la prima email infatti, quella con la chiocciola, venne mandata alla fine del 1971. Erano gli albori della rete che ancora non si chiamava nemmeno Internet. Lo strumento ebbe un immediato successo e quando arrivò il web, negli anni '90, dilagò.

Sono stati i social network a mandarla in crisi una prima volta, sottraendole il grosso delle comunicazioni con amici e parenti. E così negli ultimi anni erano già uscite diverse analisi che preconizzavano la fine o il tramonto dell'email ma ogni volta si fermavano davanti ad un dato incontrovertibile: ancora oggi, ogni giorno se ne mandano circa 300 miliardi. Quel dato però ne nasconde un altro: di tutte le email che riceviamo, quante ne apriamo effettivamente? Sempre meno. E questo accade per una trasformazione che la pandemia ha solo accelerato. Con lo smart working infatti molte comunicazioni di lavoro si sono spostate altrove: sulle piattaforme di videochiamate e per i più evoluti, in luoghi tipo Slack, che consentono di archiviare in maniera ordinata e logica i vari progetti a cui si lavora in gruppo.

Sulla email cosa è rimasto esattamente? Tanta roba, ma spesso poco interessante: le newsletter a cui ci siamo iscritti più o meno consapevolmente, le promozioni e il marketing delle aziende a cui abbiamo ceduto i dati (l'80 per cento di questi messaggi finisce dritto nel cestino), gli avvisi degli appuntamenti per le videochiamate, qualche comunicazione ufficiale, tipo dalla scuola dei figli o dalla banca. Se ci fossero anche le multe, sembrerebbe appassionante come la cassetta delle lettere. Ma l'email serve e servirà sempre: rappresenta la nostra identità digitale, quella con cui ci siamo iscritti a Netflix e Spotify, a Google e Facebook. Senza non potremmo fare quasi nulla nel mondo digitale. Ma ormai è uno strumento per autenticarci più che per comunicare. Per dire al mondo chi siamo, piuttosto che per dire agli amici come stiamo.